La responsabilità medica: quando il medico chirurgo rischia di rispondere penalmente

La responsabilità medica rappresenta oggi uno degli ambiti elettivi per la responsabilità penale colposa. Difficilmente il medico danneggia volontariamente il paziente che ha in cura, ma ciò non toglie che, con una certa frequenza, vengano commessi degli errori che si ripercuotono sulla salute del paziente. In queste ipotesi la struttura sanitaria ed il medico interessato rispondono civilmente dei danni causati, ma non è tutto: il medico rischia infatti di andare anche incontro ad un procedimento penale. Vediamo in quali casi.

Quando il medico sbaglia e dal suo errore consegue una lesione a carico del paziente le fattispecie di reato che vengono generalmente contestate sono quelle di lesioni colpose oppure, nelle ipotesi più infauste, di omicidio colposo.

Ai sensi dell’art. 590 C.P., infatti, “chiunque cagiona ad altri, per colpa, una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a trecentonove euro”. In forza dell’art. 589 C.P., invece, “Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni“.

Orbene, la frequenza con la quale sono state contestate ai medici queste ipotesi di reato è variata sensibilmente nel corso del tempo in considerazione degli orientamenti giurisprudenziali che si sono avvicendati, tanto da portare da una situazione di quasi impunità della classe medica ad una in cui, solo recentemente, il legislatore è dovuto intervenire per cercare di limitare un fenomeno di eccessiva criminalizzazione dei sanitari. In particolare, possono riconoscersi tre diverse fasi, alle quali se ne aggiunge una più recente legata all’ultimo intervento normativo: il. c.d. decreto Balduzzi.

In una prima fase storica, quella che va fino agli anni ’70, solo eccezionalmente la giurisprudenza riconosceva la responsabilità medica sul piano penale. Fino a quel periodo, infatti, si riteneva applicabile anche in ambito penale l’art. 2236 C.C., alla luce del quale per quel che riguarda le professioni intellettuali “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave“.

Invero si trattava di una disciplina dettata limitatamente all’ambito civilistico, ma che veniva “esportata” anche nel settore penale per la difficoltà di concepire ipotesi di reato non collegate a situazioni di responsabilità anche sul piano civile-risarcitorio. Questa disciplina, inoltre, veniva interpretata in maniera piuttosto estensiva, in relazione a tutte le attività poste in essere in ambito medico, senza alcuna indagine volta ad isolare le questioni che comportassero effettivamente problemi tecnici di speciale difficoltà.

Una prima svolta, rispetto a questo indirizzo originario che riconosceva alla classe medica una sostanziale immunità penale, si ebbe con la sentenza della Corte costituzionale n. 166 del 1973. In quella sede la Consulta, pur avallando l’applicazione dell’art. 2236 C.C. anche in ambito penale, pose due precise limitazioni alla possibilità di ricorrervi per limitare la responsabilità del medico.

In primo luogo l’esclusione della responsabilità del sanitario per colpa lieve andava limitata alle sole ipotesi in cui, effettivamente, esso si fosse dovuto cimentare in problematiche tecniche di particolare difficoltà. Non tutta l’attività medica presentava queste condizioni e, perciò, qualora nel caso concreto non fossero stati accertati tali presupposti il medico doveva essere chiamato a rispondere come gli altri, quindi anche per colpa lieve.

In secondo luogo la Corte Costituzionale chiarì come, anche qualora vi fossero i requisiti della particolare difficoltà tecnica dell’operazione, la limitazione di responsabilità in oggetto non era applicabile ad ogni errore medico, bensì solo a quelli scaturenti da imperizia. In altre parole, l’art. 2236 C.C. doveva riferirsi solo alle ipotesi in cui l’errore del medico inerisse all’applicazione dei dettami scienza medica e non, invece, anche quando si trattasse di un errore dovuto a mera negligenza o imprudenza.

La giurisprudenza successiva, e in particolare dagli anni ’90 in poi, giunse tuttavia ad una conclusione ben più radicale rispetto a quella tratta dalla Consulta negli anni ’70. La colpa penale andava infatti accertata in maniera autonoma, senza fare alcun riferimento all’art. 2236 C.C., ovverosia ad una norma dell’ordinamento civile dettata dal legislatore per rispondere a logiche ed esigenze diverse da quelle penali (v. Cass. Sez. IV, n. 4028/1991 oppure, più recentemente, la Cass. Sez. IV, 37077/2008).

Un tale approccio giurisprudenziale, che in seguito si consolidò sempre di più, scaturiva anche dalla consapevolezza di come, ai sensi dell’art. 185 C.P., ogni volta che si accerta la sussistenza di un reato vi è sempre, sullo sfondo, anche un danno civilistico risarcibile. L’art. 2236 C.C. perciò non poteva svolgere alcun effetto limitativo della responsabilità penale del medico.

Con ciò non si escludeva che la necessità di affrontare una problematica tecnica di particolare difficoltà potesse limitare o addirittura escludere la responsabilità del medico, ma ciò poteva avvenire in considerazione di una regola di esperienza alla luce della quale, ex art. 43 C.P., andare a parametrare la colpevolezza del medico; non invece in forza di un automatismo imposto dall’art. 2236 C.C. (v. Cass. Sez. IV, 39592/2007)

Orbene un tale assetto normativo e giurisprudenziale ormai consolidato da decenni è stato alternato dall’introduzione dell’art. 3 del. d.l. 158/2012 (c.d. decreto Balduzzi), convertito con modificazioni dalla l. 189/2012, sulla scorta della necessità di limitare in qualche modo l’ormai dilagante fenomeno della responsabilità medica.

Ai sensi di quest’ultima norma, “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo“.

In questo modo si è voluto limitare la responsabilità penale del medico alle ipotesi più eclatanti di colpa grave, almeno nei limiti in cui ricorra l’osservanza di linee guida scientificamente accreditate nella trattazione della patologia.

Questa svolta normativa, tuttavia, non deve far pensare ad un ritorno al passato, quando la classe medica era considerata immune da ogni responsabilità penale, e va piuttosto letta alla luce di due considerazioni.

In primo luogo , il medico non può ovviamente limitarsi ad applicare meccanicamente delle linee guida per scongiurare ogni profilo di responsabilità. Le linee guida sono infatti delle regole astratte, che devono trovare corretta applicazione nella concreta realtà del caso clinico. Il sanitario, infatti, non solo può, ma ha addirittura l’obbligo di discostarsi dalle linee guida in tutte le ipotesi in cui ricorrano, nel caso concreto, circostanze tali da renderne inutile o addirittura controproducente l’osservanza. (v. Cass. Sez. IV, n. 9923/2015)

In secondo luogo, occorre dare atto di una giurisprudenza piuttosto nutrita, affermatasi dopo l’entrata in vigore del c.d. “decreto balduzzi”, che ne ha in larga parte sterilizzato gli effetti. Secondo questa corrente interpretativa, infatti, la limitazione della responsabilità del medico alla sola colpa grave nelle ipotesi di osservanza delle linee guida varrebbe unicamente per le ipotesi di imperizia, ovverosia di errori commessi nell’applicazione delle regole della scienza medica (tra cui le stesse linee guida) e non anche, invece, per le ipotesi di errori commessi per mera imprudenza o negligenza del sanitario. (v. Cass. sez. IV, n. 36347/2014).

Dopo tre anni di applicazione del c.d. “decreto Balduzzi” in ambito medico si registrano poche aperture in favore della limitazione della responsabilità medica alle ipotesi di colpa grave in riferimento ad ogni ipotesi di errore medico, sia esso dovuto ad imperizia, così come a imprudenza o negligenza (v. Cass. sez. IV, n. 47289/2014). In un’ipotesi di condotta medica imprudente – ma rispettosa delle linee guida – la Cassazione ha recentemente affermato che in una simile ipotesi deve ritenersi operante la norma di cui all’articolo 3, comma 1, della cd. legge Balduzzi, in combinato disposto con l’articolo 43, comma 3, del codice penale, con conseguente limitazione di responsabilità del medico per colpa lieve. (v. Cass., IV° Sez., n. 23283/2016).
D’altronde, la distinzione tra le diverse ipotesi di colpa, sul piano pratico, è tutt’altro che agevole e rischierebbe altrimenti di sfociare in decisioni meramente arbitrarie dell’Autorità giudicante.

Da ultimo, merita di ricordare come il sanitario risponda penalmente non soltanto degli errori che lui stesso ha commesso, bensì anche di quelli dei suoi colleghi che abbiano partecipato alla cura del medesimo paziente, nei limiti in cui abbia il dovere di sorvegliare l’operato degli altri medici (v. il primario o il capo equipe) oppure, nelle altre ipotesi, quando abbia le competenze necessarie ed abbia avuto l’occasione di rendersi conto dell’errore commesso dal collega. In questi casi il medico deve intervenire per sopperire alle deficienza altrui, esponendosi altrimenti al rischio di essere chiamato a rispondere, anche penalmente, per gli errori altrui.

Avv. Ronny Spagnolo