Ultime sul reato di insubordinazione con ingiuria (art. 189 c.p.m.p.)

L’art. 189 del codice penale militare di pace punisce l’insubordinazione con ingiuria o minaccia.

In particolare, questa disposizione punisce il militare colpevole di insubordinazione, che può essere realizzata secondo due diverse modalità di condotta: quella del “militare che minaccia un ingiusto danno ad un superiore in sua presenza“, oppure queIla del “militare che offende il prestigio, l’onore o la dignità di un superiore in sua presenza“.

Si tratta di una fattispecie di reato proprio del militare e che è posta a tutela dell’ordine gerarchico che contraddistingue l’organizzazione delle forze armate e degli altri corpi di polizia ad ordinamento militare: quindi l’Esercito, la Marina, l’Aeronautica, i Carabinieri e la Guardia di Finanza.

Merita peraltro di essere precisato che, ai sensi dell’art. 199 c.p.m.p., per integrare il reato militare in questione è necessario che, in alternativa, il fatto sia riconducibile a ragioni attinenti il servizio e/o la disciplina oppure che il reo sia ”in servizio” e comunque che il fatto sia commesso alla presenza di “più militari riuniti per servizio”.

Non ricorrendo, alternativamente, l’uno o l’altro dei due suddetti requisiti il fatto potrebbe assumere al più rilevanza disciplinare, e comunque interessare il Tribunale Militare per i reati di ingiuria e/o minaccia (ammesso che ve ne sia la richiesta tempestiva del C.te di Corpo), ma non verrebbe in rilievo il reato di reato di insubordinazione con ingiuria (art. 189 c.p.m.p.).

In ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 189 c.p.m.p. si è recentemente espressa la Corte di Cassazione, che ha enunciato il seguente principio: Nel reato militare di insubordinazione con ingiuria, integra l’offesa all’onore e al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore nonché l’uso di tono arrogante, perché si tratta di comportamenti contrari alle esigenze della disciplina militare per la quale il soggetto di grado più elevato deve essere tutelato, non solo nell’espressione della sua personalità umana, ma anche nell’ascendente morale di cui ha bisogno per un degno esercizio dell’autorità del grado e della funzione di comando. Tuttavia la condotta di insubordinazione deve inserirsi in un rapporto di effettiva – e non solo pretesa – subordinazione gerarchica.

La Corte di Cassazione, sez. I penale, con la sentenza 7 marzo – 18 luglio 2019, n. 31829, ha infatti annullato la condanna di un Maresciallo Capo dei Carabinieri per insubordinazione con ingiuria nei confronti di un Capitano dei Carabinieri. Le condotte incriminate erano l’aver negato all’ufficiale l’accesso al suo ufficio e aver restituito documenti in maniera offensiva.

La difesa del militare ha sostenuto che le azioni rientravano nella disobbedienza, non nel reato di insubordinazione con ingiuria (art. 189 c.p.m.p.), poiché erano scaturite da una coartazione illegittima relativa alle indagini di polizia giudiziaria.

La Corte ha accolto il ricorso, criticando la sentenza di merito per non aver considerato il contesto delle indagini e se l’intervento del superiore avesse interferito con la sfera di competenza dell’autorità giudiziaria. Poiché non è stato accertato se l’azione del superiore ha riguardato solo il rapporto gerarchico o anche la dipendenza funzionale con l’Autorità Giudiziaria, la Corte ha annullato la condanna e ha rinviato il caso per un nuovo giudizio. (Corte di Cassazione, sez. I penale, con la sentenza 7 marzo – 18 luglio 2019, n. 31829).

Ai fini della punibilità del reato di insubordinazione con ingiuria (art. 189 c.p.m.p.), quindi, occorre che il rapporto di subordinazione gerarchica del reo venga accertato in concreto, in relazione specifiche alle circostanza del fatto.

La calunnia al terzo e giustificata se risulta indispensabile all’esercizio del diritto di difesa

Calunnia e diritto di difesa: secondo la sentenza n. 6598/2022 della Corte di Cassazione, un imputato che accusa falsamente persone innocenti non può essere condannato per calunnia se tale accusa è l’unico mezzo essenziale per difendersi da un’accusa rivoltagli.

Ai sensi dell’art. 368 del codice penale viene punito per il delitto di calunnia chiunque si rivolga all’Autorità giudiziaria incolpando di un reato taluno che egli sa innocente.

Il caso trattato riguarda un imputato accusato di calunnia per aver falsamente attribuito a un’altra persona la firma su un contratto di noleggio di un’auto. La Corte d’appello aveva assolto l’imputato basandosi sull’art. 51 del codice penale, che consente l’esercizio del diritto di difesa come causa di giustificazione per la falsa accusa.

La parte civile ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che l’imputato avrebbe potuto difendersi affermando di non sapere chi avesse falsificato la firma sul contratto, senza accusare un’altra persona. Tuttavia, il Procuratore generale ha argomentato che accusare falsamente altri, se ciò è strettamente necessario per confutare l’accusa rivolta all’imputato stesso, rientra nei limiti del diritto di difesa.

Calunnia e diritto di difesa. La sentenza della Cassazione ha confermato l’interpretazione dell’art. 51 c.p., sottolineando che l’accusa falsa è giustificabile solo se è strettamente essenziale per confutare l’accusa rivolta all’imputato e non può essere superflua o inventata. La Corte ha sottolineato che la falsa accusa deve essere l’unico mezzo di difesa disponibile e non può avere alternative ragionevoli per negare l’accusa.

Nel caso specifico, la Corte ha stabilito che l’imputato non aveva altra opzione difensiva se non accusare la persona della firma falsificata per esercitare il suo diritto di dichiararsi innocente dall’accusa di falsificazione della firma su un contratto.