Il delitto d’onore, il matrimonio riparatore e la disparità di genere in Italia

Il delitto d’onore. L’importante fenomeno migratorio che sta coinvolgendo l’Italia in questi anni sta costringendo gli italiani – con un certo ritardo rispetto agli altri paesi europei – a fare i conti con la diversità: a relazionarsi con nuove genti portatrici di culture, religioni e tradizioni differenti.

Tutto ciò, com’è inevitabile, sta creando notevoli problemi, difficoltà ed incomprensioni. In particolare, uno dei terreni più fertili sul quale mette radici questo “scontro di civiltà” è indubbiamente quello della parità di genere e quindi del ruolo sociale riservato alla donna.

Da un lato, la società italiana si mostra – condivisibilmente – intollerante verso usi e costumi stranieri volti a relegare la donna ad un ruolo meramente subalterno, talvolta anche con modalità violente; dall’altro, gli stranieri chiedono di poter continuare a coltivare le proprie tradizioni all’interno delle loro comunità e famiglie.

Orbene, è ovviamente più che legittimo che una società difenda le conquiste culturali e sociali conquistate nel passato da ogni forma di attacco – interno o esterno che sia – tuttavia merita di ricordare come tali conquiste, che talvolta siamo abituati a dare per scontate, siano tutt’altro che ovvie e di lontana acquisizione in questo paese.

Senza andare a trattare il mondo dei rapporti sociali, dove la parità di genere mostra tutt’ora di essere un obiettivo non pienamente raggiunto, si vogliono qui ricordare alcune norme che fino a qualche decennio fa connotavano il nostro ordinamento penalistico in termini spiccatamente maschilistici, non meno di quel che capita tutt’oggi in alcuni ordinamenti del terzo mondo che, a buona ragione, siamo abituati a considerare come piuttosto primitivi.

Cominciamo col delitto d’onore: vera e propria vergogna della nostra legislazione fino a poco più di trent’anni fa. L’art. 575 C.p. punisce infatti, adesso come allora, l’omicidio volontario con la pena della reclusione non inferiore a 21 anni.

Ebbene, questa fattispecie subiva in passato un’importante eccezione nelle ipotesi nelle quali l’omicidio – quasi sempre di una donna – fosse giustificato dall’esigenza di difendere il proprio onore, sopratutto nelle ipotesi di tradimento. In queste ipotesi la pena per l’omicidio diventava sensibilmente inferiore, potendo arrivare ad un minimo di soli 3 anni di reclusione.

Ai sensi dell’allora vigente art. 587 C.p., infatti, “chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”.

La gravità di una norma simile, peraltro, può essere pienamente apprezzata soltanto se si tiene bene a mente come quest’ultima si inserisse all’interno di un’ordinamento che ancora fino al 1970 neppure ammetteva il divorzio: costringendo così relazioni coniugali da tempo esaurite – o addirittura mai veramente cominciate – a protrarsi forzosamente all’infinito. Ogni relazione avuta al di fuori dell’indissolubile vincolo coniugale si ammantava così di quell’illegittimità che costituiva il presupposto applicativo del “delitto d’onore”.

A questo proposito, merita peraltro di rammentare come l’art. 559 C.p., che puniva con la reclusione l’adulterio femminile  e non anche quello maschile, sia stato giudicato costituzionalmente illegittimo solo nel 1968.

Ebbene, il delitto d’onore – ben lungi dall’essere qualcosa che si perde nella notte dei tempi – venne abrogato in Italia solo nel 1981, grazie alla Legge n. 442/1981. La predetta legge, peraltro, intervenne anche su di un’altra “norma vergogna” che allora faceva bella mostra nel Codice penale italiano: l’art. 544 C.p.

Prima di entrare nel merito della suddetta fattispecie, serve però introdurre una breve premessa. Fino al 1996, infatti, la punizione del reato di violenza sessuale – allora inquadrata nelle due fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine violenti – veniva giustificata in Italia non perché si trattasse di una delle forme più ripugnanti di attacco alla persona, ma solo in considerazione del fatto che si trattava di comportamenti giudicati come offensivi per “la moralità ed il buon costume“. A doversi considerare offesa dalla commissione di questi atroci delitti, insomma, non era la vittima del reato che li subiva, bensì la società “che si scandalizzava”!

Ebbene, coerentemente a quanto sopra, ancora fino al 1981 era stabilità un’ipotesi di estinzione del reato di violenza sessuale – con conseguente impunità per il responsabile – allorquando la vittima ed il carnefice contraessero in seguito matrimonio.

Ai sensi dell’allora vigente art. 544 C.p., invero, “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali“.

Il disvalore della condotta non veniva infatti riconosciuto nella violenza perpetrata sulla vittima, ma nello scandalo per la relazione “extraconiugale”! Da ciò ne derivava che una volta “legittimata” la violenza per il tramite del “matrimonio riparatore” tra violentato/a e violentatore, lo Stato non avesse più interesse a punire l’autore dell’orrendo gesto. D’altronde a quei tempi nessuno avrebbe giudicato punibile episodi di violenza sessuale avvenuti all’interno del matrimonio.

Con tutto ciò non si vuol minimamente giustificare forme di prevaricazione di genere proprie di certe culture che si stanno affacciando nel nostro paese, ma soltanto invitare a riflettere su quanto anche le nostre – giustamente declamate – conquiste di civiltà siano estremamente recenti e tutt’altro che scontate anche per la nostra società occidentale.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.