La sottrazione di minori

La sottrazione di minori. Quando l’allontanamento di un minorenne dalla sua famiglia – o anche solo da uno dei due genitori – può determinare la commissione di un reato?

Il rapimento di minorenni è fortunatamente un fenomeno piuttosto raro, nonostante il notevole clamore mediatico suscitato da questo tipo di episodi.

Molto più frequente è invece il caso nel quale è proprio uno dei due genitori ad allontanare il figlio dall’altro, sottraendolo alla sua vigilanza. Da questo punto di vista, la crescente frequenza di matrimoni “misti” tra cittadini di diversi Stati ha reso la problematica ancora più complessa.

Cerchiamo allora di analizzare quali ipotesi di reato vengono in rilievo in questi casi. Il Codice penale dedica infatti al contrasto di questo fenomeno due specifiche fattispecie delittuose.

Viene innanzitutto in rilievo il reato di “sottrazione consensuale di minorenni”, di cui all’art. 573 C.p.

Chiunque sottrae un minore, che abbia compiuto gli anni quattordici, col consenso di esso, al genitore esercente la potestà dei genitori, o al tutore, ovvero lo ritiene contro la volontà del medesimo genitore o tutore, è punito, a querela di questo, con la reclusione fino a due anni. La pena è diminuita, se il fatto è commesso per fine di matrimonio; è aumentata, se è commesso per fine di libidine.

Come emerge evidente dal dato testuale, affinché possa integrarsi questo reato devono ricorrere due presupposti: a) la vittima deve essere minorenne, ma aver già compiuto i quattordici anni d’età; b) l’allontanamento del minore deve avvenire col suo consenso.

Si tratta di una fattispecie volta a sanzionare quel fenomeno che, sopratutto nel sud del paese, viene definito “fuitina”: ovverosia l’allontanamento volontario della minorenne col fidanzato, al fine di porre la famiglia di fronte al fatto compiuto ed indurla a prestare il consenso alle nozze.

Non di meno,  l’illecito può ricorrere anche quando il responsabile non sia un soggetto esterno alla famiglia del minore. In particolare, anche il genitore che allontani il figlio dall’altro genitore, impedendogli di svolgere il suo ruolo genitoriale, può incorrere in tale reato.

Il reato di sottrazione di minorenne può consumarsi sia allontanando il minorenne dai genitori, sia trattenendolo altrove dopo che i genitori avevano inizialmente acconsentito all’allontanamento per un certo periodo.

Il responsabile può essere punito solo a querela del genitore, che deve intervenire nel termine perentorio di tre mesi dal fatto.

Qualora i due genitori siano separati ed un provvedimento giudiziale regoli l’affidamento del minorenne ai due genitori, occorre porre una distinzione. La violazione di singole prescrizioni del giudice, infatti, potrà tutt’al più rilevare ai sensi dell’art. 388 C.p., mentre per la commissione del delitto di cui all’art. 573 C.p. sarà necessario un comportamento tale da rendere del tutto impossibile all’altro genitore di concorrere nell’esercizio della potestà genitoriale.

La seconda fattispecie di reato rilevante in questi casi è quella di sottrazione di persone incapaci, di cui all’art. 574 C.p.

Chiunque sottrae un minore degli anni quattordici, o un infermo di mente, al genitore esercente la patria potestà, al tutore, o al curatore, o chi ne abbia la vigilanza o la custodia, ovvero lo ritiene contro la volontà dei medesimi, è punito, a querela del genitore esercente la potestà dei genitori, del tutore o curatore, con la reclusione da uno a tre anni. Alla stessa pena soggiace, a querela delle stesse persone, chi sottrae o ritiene un minore che abbia compiuto gli anni quattordici, senza il consenso di esso, per fine diverso da quello di libidine o di matrimonio.

In questo caso, presupposto indispensabile dell’illecito è che il minore sia infraquattrodicenne, mentre diviene del tutto irrilevante che quest’ultimo abbia prestato il suo consenso all’allontanamento.

Inoltre, risponde di tale reato anche chi allontani un minorenne che abbia già compiuto gli anni quattordici ma, diversamente dall’ipotesi prevista dall’art. 573 C.p., contro la sua stessa volontà.

Anche in questo caso, a macchiarsi di tale reato può essere chiunque, compreso l’altro genitore.

Nuovamente, il responsabile può essere perseguito penalmente soltanto su querela dei genitori (o dell’altro genitore, allorquando il responsabile sia proprio uno dei due genitori), nel termine perentorio di tre mesi dal fatto.

In quest’ultimo caso (sottrazione di minore incapace) la giurisprudenza non esclude neppure la possibilità di contestare in concorso anche il delitto di sequestro di persona, di cui all’art. 605 C.p.

Chiunque priva taluno della libertà personale è punito con la reclusione da sei mesi a otto anni.
La pena è della reclusione da uno a dieci anni, se il fatto è commesso: 1) in danno di un ascendente, di un discendente, o del coniuge; 2) da un pubblico ufficiale, con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni.
Se il fatto di cui al primo comma è commesso in danno di un minore, si applica la pena della reclusione da tre a dodici anni. Se il fatto è commesso in presenza di taluna delle circostanze di cui al secondo comma, ovvero in danno di minore di anni quattordici o se il minore sequestrato è condotto o trattenuto all’estero, si applica la pena della reclusione da tre a quindici anni.

Secondo la giurisprudenza, infatti, anche un bambino in tenera età (e quindi non sufficientemente maturo per esprimere un consenso valido) può essere oggetto di sequestro di persona.

Come può evincersi dal dato testuale, inoltre, il legislatore ha previsto una specifica circostanza aggravante proprio per il caso in cui a subire il sequestro sia il minorenne. Minorenne che, in questi caso, si vede privato sia della libertà personale, che della tutela garantitagli dai genitori.

Un’ipotesi aggravante è inoltre stabilita per le ipotesi in cui il minore sequestrato venga portato o trattenuto all’estero.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.

Mobbing sul lavoro: contestabile il reato di stalking

Mobbing e Stalking. Secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione, le ipotesi di mobbing sul lavoro possono essere inquadrate nel delitto di “atti persecutori”.

Sotto il profilo sociologico, il “mobbing” viene definito come la reiterazione sistematica nel tempo di una serie di comportamenti, aventi carattere persecutorio e discriminatorio, volti ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro.

Nonostante l’indubbia offensività di tali comportamenti, ad oggi, non esiste nell’ordinamento italiano alcuna specifica fattispecie di reato idonea a contrastare il mobbing, nonostante le odierne forme di precarizzazione del lavoro rischino di accentuare ancora di più il fenomeno.

Nel vuoto legislativo, la giurisprudenza si è pertanto dovuta impegnare per cercare di dare a questa tipologia di comportamenti un adeguato inquadramento giuridico, così da poterli sanzionare.

Per fare questo, la giurisprudenza ha tradizionalmente inquadrato il fenomeno nell’ambito del delitto di maltrattamenti, di cui all’art. 572 C.p.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.

Quest’ultima è una fattispecie di reato nata per contrastare ipotesi di violenza domestica, ma che la giurisprudenza è riuscita a rendere operativa anche in ambito lavorativo per via del richiamo della norma alle ipotesi di “maltrattamenti contro persone soggette all’autorità del responsabile”, così come generalmente avviene nei luoghi di lavoro.

Questa operazione di estensione del reato di maltrattamenti dal contesto familiare a quello lavorativo non ha tuttavia completamente risolto il problema.

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, il reato di maltrattamenti non può sempre trovare applicazione in ambito lavorativo. E’ infatti necessario che i maltrattamenti avvengano all’interno di un ambiente lavorativo nel quale sia riconoscibile una clima di para-familiarità, caratterizzato da relazioni personali intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre una posizione di supremazia.

Solo a queste condizioni il mobbing sul lavoro potrà essere contrastato ricorrendo al delitto di maltrattamenti, diversamente lo spiacevole fenomeno rischia di rimanere penalmente irrilevante.

E’ infatti del tutto evidente come se nell’ambito della piccola impresa il mobbing potrà quasi sempre essere agevolmente inquadrato nel delitto di maltrattamenti, molto più difficile sarà garantire lo stesso effetto nei contesti organizzativi più grandi, dove le relazioni tra i soggetti tendono inevitabilmente a spersonalizzarsi.

Proprio al fine di evitare una così evidente lacuna sanzionatoria – per lo meno finché il legislatore non deciderà di intervenire introducendo una specifica ipotesi di reato – la giurisprudenza ha cercato di esplorare nuove vie per inquadrare il fenomeno.

Si è quindi cominciato, inizialmente sopratutto da parte della giurisprudenza di merito, ad inquadrare il mobbing all’interno della figura degli atti persecutori, di cui all’art. 612-bis C.p.

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

In questo modo si ottiene infatti il risultato di poter incriminare tali condotte anche al di fuori di contesti nei quali siano riconoscibili relazioni di tipo parafamiliare.

Con la sentenza n. 35588/2017 anche la Corte di Cassazione sembra aver accolto quest’impostazione, sanzionando un’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo ricorrendo appunto al delitto di stalking.

La Corte di legittimità ha infatti sancito la definitiva condanna del responsabile di un servizio comunale per la persecuzione professionale posta in essere in danno di una lavoratrice sua subordinata, chiamando peraltro il datore di lavoro a risarcire in solido con lo stalker i danni da questo cagionati alla vittima.

In caso di mobbing orizzontale, ovverosia non commesso dal datore di lavoro ma da un collega, sarà peraltro possibile ipotizzare un concorso di responsabilità – anche sul piano penale – del datore di lavoro che, pur consapevole dei maltrattamenti subiti dal suo dipendente, non sia intervenuto per porvi fine.

Ai sensi dell’art. 2087 del codice civile, infatti, il datore di lavoro è sempre personalmente responsabile della sicurezza e, più in generale, della tutela dell’integrità psicofisica dei suoi dipendenti.

L’inquadrabilità del mobbing nel reato di stalking rimane tuttavia oggetto di discussione in dottrina e, comunque, occorre ricordare come, al contrario dei maltrattamenti, il delitto di atti persecutori sia procedibile esclusivamente a querela di parte.

Ciò significa che sarà possibile contestare il delitto di stalking soltanto qualora la vittima abbia formalmente chiesto di perseguire il responsabile entro il termine perentorio di sei mesi dall’ultimo atto persecutorio subito.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.