Non è più reato falsificare gli assegni

Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione, a seguito dell’abrogazione del delitto di “falso in scrittura privata” ad opera del D.Lgs. n. 7 del 15/01/2016, non è più reato falsificare gli assegni “non trasferibili”.

Fino a pochi anni orsono la falsificazione di assegni bancari veniva indubitabilmente punita alla luce del delitto di “falsità in scrittura privata“. Ai sensi dell’art. 485 C.p., infatti,

Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, forma, in tutto o in parte, una scrittura privata falsa, o altera una scrittura privata vera, è punito, qualora ne faccia uso o lasci che altri ne faccia uso, con la reclusione da sei mesi a tre anni. Si considerano alterazioni anche le aggiunte falsamente apposte a una scrittura vera, dopo che questa fu definitivamente formata 

Sennonché il D.Lgs. 7/2016 – un provvedimento col quale il legislatore ha inteso alleggerire la materia penale, abrogando tutta una serie di reati considerati di minore allarme sociale, trasformandoli in illeciti amministrativi o addirittura, come in questo caso, in meri illeciti civilistici – ha abrogato il reato di “falso in scrittura privata”.

Si è quindi posta la questione se la falsificazione di assegni bancari sia rimasta un fatto penalmente rilevante alla luce di altre fattispecie penali, oppure se fosse diventata una condotta penalmente del tutto irrilevante.

Secondo un primo orientamento, la falsificazione di assegni avrebbe continuato a costituire reato – anche dopo l’abrogazione del reato di falso in scrittura privata – alla luce della diversa fattispecie di “falso in testamento olografo, cambiale o titoli di credito”  (Cass. pen., Sez. II, 1° marzo 2018, n. 13086; Cass. pen., Sez. II, 22 giugno 2017, n. 36670). Ai sensi dell’art. 491 C.p., infatti,

Se alcuna delle falsità prevedute dagli articoli precedenti riguarda un testamento olografo, ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore, e il fatto è commesso al fine di recare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, si applicano le pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell’articolo 476 e nell’articolo 482. Nel caso di contraffazione o alterazione degli atti di cui al primo comma, chi ne fa uso, senza essere concorso nella falsità, soggiace alla pena stabilita nell’articolo 489 per l’uso di atto pubblico falso.

Secondo un diverso orientamento, invece, a seguito dell’abrogazione della fattispecie di falso in scrittura privata la falsificazione di assegni (non trasferibili) non assumerebbe più alcuna rilevanza penale (Cass. pen., Sez. V, 4 aprile 2017, n. 32972; Cass. pen., Sez. V, 17 gennaio 2017, n. 11999).

Occorre infatti rammentare come la normativa antiriciclaggio negli ultimi anni abbia vietato – e comminato pesanti sanzioni pecuniarie ai trasgressori – l’utilizzo di assegni bancari di valore superiore a 1.000,00 euro privi della dicitura “non trasferibile”. A causa di ciò gli stessi istituti di credito hanno iniziato a distribuire ai loro clienti soltanto assegni precompilati con la dicitura “non trasferibile”.

La conseguenza di tutto ciò è che l’assegno bancario (non trasferibile) non può più oggi essere considerato – e quindi anche disciplinato – come un titolo di credito che possa consentire la circolazione di un credito tra più persone, bensì rappresenta un mero mezzo di pagamento col quale il titolare di un conto corrente autorizza la propria banca a disporre delle proprie risorse depositate sul conto.

Al fine di dirimere la questione, nel settembre 2018 sono quindi dovute pronunciarsi le Sezioni Unite della Corte di cassazione, che hanno escluso che la falsificazione di assegni bancari (non trasferibili) possa essere punita ai sensi dell’art. 491 C.p., posto che quest’ultima fattispecie punisce unicamente la falsificazione dei “titoli di credito trasmissibili per girata o al portatore”, mentre gli assegni “non trasferibili” non rientrano in tale nozione.

Secondo la Suprema Corte, infatti, “La falsità commessa su un assegno bancario munito della clausola di non trasferibilità configura la fattispecie di cui all’art. 485 c.p., abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 e trasformato in illecito civile” (Cassazione penale, SS.UU., sentenza n° 40256 del 10/09/2018).

Di per sé, quindi, la falsificazione di assegni non trasferibili – si tenga presente che ormai gli istituti di credito emettono soltanto blocchetti degli assegni già precompilati con la dicitura “non trasferibile” – non comporta più la commissione di alcun reato.

Una siffatta conclusione non deve tuttavia fuorviare. Oltre a residuare una possibile responsabilità sul piano civile, infatti, il fraudolento utilizzo dell’assegno falsificato potrà certamente assumere rilievo, per esempio, quale “artificio” ai fini della commissione del delitto di truffa allorquando ricorrano tutti gli altri requisiti della fattispecie.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.

La coltivazione di marijuana per uso personale non sempre è illecita

La coltivazione di marijuana per uso personale non sempre è illecita. Potrebbe apparire un’affermazione assurda, atteso che è ben noto a tutti come lo Stato punisca assai duramente ogni condotta concernente le sostanze stupefacenti, ma un esame della più recente giurisprudenza sulla questione induce a dare una risposta meno scontata.

L’art. 73 del D.P.R. 309/1990 punisce in maniera piuttosto severa “chiunque coltiva, produce, fabbrica, estrae raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce commercia, trasporta, , procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti”.

Nonostante ciò, come conseguenza di un referendum abrogativo celebratosi con esito positivo nel 1993, limitatamente alle condotte di “ricezione, acquisto e detenzione” la rilevanza penale (e quindi il rischio di vedersi contestare un reato) è esclusa qualora la sostanza stupefacente sia acquistata o detenuta esclusivamente per uso personale; e non quindi per la cessione a terzi.

Alla luce di un tale assetto normativo, sembrerebbe pertanto evidente come la coltivazione di sostanze stupefacenti sia sempre penalmente illecita, del tutto a prescindere dallo scopo – eventualmente di esclusivo consumo personale – della condotta.

Tutto ciò ha indotto la giurisprudenza ad interrogarsi sulla logicità di un sistema che sembra premiare chi, per uso personale, si rivolge al mercato illecito degli stupefacenti – finanziando così la criminalità organizzata – piuttosto di chi, coltivando in proprio la sostanza stupefacente necessaria al proprio consumo, non alimenta tale traffico illecito (Sulla questione si è peraltro espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 360/1995).

Si è pertanto fatto notare come la coltivazione domestica di un numero limitato di piante di marijuana, pur essendo un fatto che formalmente rientra nell’ipotesi di reato, sia una condotta che di per sé non è in grado di attentare alla salute pubblica: ovverosia il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice che giustifica la repressione penale.

In passato, quindi, la Corte di cassazione aveva iniziato a dare rilievo alla tipologia di coltivazione: ritenendo che il reato in questione ricorresse soltanto nell’ipotesi di coltivazione organizzata tecnico-agraria e non anche nell’ipotesi di modeste coltivazioni domestiche votate all’autoconsumo. In quest’ultima ipotesi la condotta, seppur formalmente illecita, doveva ritenersi come inoffensiva e pertanto non punibile.

Rispetto a queste aperture, tuttavia, erano intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con le sentenze n. 28605 e 28607 del 2008, avevano stabilito che tutte le tipologie di coltivazione dovevano essere ritenute penalmente illecite: del tutto a prescindere dalla tipologia e dalla dimensione dell’attività, così come dalla finalità di autoconsumo. L’unico ipotesi di inoffensività della condotta andava ravvisata nella coltivazione di piante del tutto inidonee a generare effetti stupefacenti nell’assuntore.

Un tale arresto giurisprudenziale era peraltro stato confermato in seguito da varie sentenze (v. Cass. pen. Sez. III, 25 marzo 2014, n. 37835), secondo le quali tutte le forme di coltivazione di sostanze stupefacenti dovevano dirsi illecite, a prescindere dalla finalità di uso personale o meno.

Negli ultimi anni, tuttavia, è riemerso all’interno della stessa Corte di Cassazione un diverso filone interpretativo, più incline a ed escludere la rilevanza penale nelle ipotesi di piccole coltivazioni domestiche di marijuana destinate al mero utilizzo personale.

Secondo tali pronunce, infatti, deve ritenersi inoffensiva, e perciò anche non penalmente illecita, la coltivazione di un piccolo numero di piante di marijuana nei limiti in cui non sia destinata alla cessione a terzi.

Conforta una tale interpretazione della norma una recente sentenza della Corte di Cassazione che, solo pochi mesi fa, ha ritenuto che non avesse commesso alcun reato colui che aveva coltivato a casa sei piante di marijuana per far fronte al proprio fabbisogno personale.

In particolare, in quell’occasione la Corte di legittimità ha espresso il seguente principio di diritto: “La condotta di coltivazione non autorizzata di una pianta [di marijuana] conforme al tipo botanico, la quale abbia, se matura, raggiunto la soglia di capacità drogante minima, non è penalmente rilevante quando sia del tutto inidonea, in ragione del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione, a determinare sia un pericolo per la salute pubblica, sia la possibile diffusione della sostanza producibile”.     (Cass. pen., Sez. III, 21 luglio 2017, n. 36037)

Pur trattandosi di un ambito ancora non del tutto chiarito, anche alla luce di un dettato normativo piuttosto rigido e della compresenza di sentenze di legittimità di segno opposto, sembra perciò tornare ad aprirsi uno spiraglio per tutti quegli assuntori di cannabis che preferiscono non rivolgersi al mercato nero per garantire il proprio fabbisogno.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.