Furto al supermercato e superamento delle casse

Ogni giorno in Italia vengono commessi centinaia di piccoli furti ai danni di negozi e centri commerciali. In proposito, è recentemente intervenuta un’importante sentenza dalla Cassazione circa l’esatto significato da attribuire al superamento della barriera della casse senza aver dichiarato – e quindi pagato – la merce nelle ipotesi di furto al supermercato.

All’interno dei supermercati, dove l’acquirente è libero di servirsi autonomamente dagli scaffali della merce che intende comprare, infatti, diventa talvolta particolarmente difficile stabilire il confine tra il comportamento lecito, il tentativo di furto ed il furto consumato.

Ma andiamo con ordine.

Secondo l’art. 624 C.p., invero, commette il delitto di furto “chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri”.

La condotta illecita si struttura quindi in due fasi distinte, che a seconda dei casi possono coincidere oppure risultare – anche cronologicamente – distinte.

Vi una prima fase, quella della “sottrazione”, in cui l’autore apprende fisicamente il bene dal luogo in cui l’aveva riposto il suo legittimo proprietario.

Per il perfezionamento del reato serve però un passaggio ulteriore: occorre infatti che si realizzi “l’impossessamento”, ovverosia che l’autore del furto cominci a disporre liberamente del bene sottratto, al di fuori della sfera di controllo del legittimo proprietario.

Finché non si realizza anche l’impossessamento il furto non è perfezionato e l’autore potrà semmai essere punito – più lievemente – soltanto a titolo di tentativo.

Ai sensi dell’art. 56 C.p., infatti, è punito a titolo di tentativo – con una riduzione di pena da 1/3 ai 2/3 rispetto alla fattispecie consumata – “chi commette atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un certo delitto, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.

Ciò significa che l’apprensione della merce dagli scaffali del supermercato, generalmente lecita in quando preordinata al successivo acquisto alla cassa, diviene invece penalmente illecita a titolo di tentativo quando le modalità dell’azione risultano idonee ed inequivocabilmente dirette a commettere un furto, ovverosia ad impossessarsi successivamente della merce senza pagarla.

Finché il ladro si muove all’interno del supermercato con la merce occultata indosso, e quindi con l’inequivocabile intenzione di non pagarla, si rimane perciò nell’ambito del furto tentato. Nonostante vi sia stata la sottrazione, infatti, non v’è ancora stato l’impossessamento: dato che l’autore del reato non può ancora disporre liberamente della merce sottratta (tant’è vero che è ancora costretto ad occultarla) ed il bene appreso rimane ancora nella sfera di potenziale vigilanza del legittimo proprietario.

Quand’è allora che il taccheggio al supermercato, da mero tentativo, diventa un furto perfezionato?

A lungo la giurisprudenza ha dato a questa domanda una risposta convenzionale e di facile applicazione, ma che nella sua rigidità non risultava del tutto appagante.

Il momento dirimente veniva infatti identificato con il superamento delle casse. Prima di quel momento, la merce sottratta rimane nell’area di controllo del supermercato e perciò l’autore sorpreso con la merce occultata rispondeva soltanto di tentato furto; solo successivamente, col superamento delle casse,  si riteneva realizzato l’impossessamento della merce e quindi anche il passaggi dal furto tentato a quello consumato.

Nella sua rigidità, tuttavia, questa impostazione è stata oggetto di critiche. Si faceva infatti notare come, piuttosto frequentemente, capitasse che l’addetto alla cassa nutrisse dei sospetti su di un certo cliente e, anziché bloccarlo immediatamente, allertasse la vigilanza, che eseguiva il controllo mirato del sospetto all’uscita dell’esercizio commerciale, sorprendendo il responsabile con la merce rubata.

In queste ipotesi, si faceva correttamente notare come, nonostante il superamento delle casse, non si potesse ancora parlare di furto consumato, bensì fosse più corretto applicare la – più favorevole – disciplina sul tentativo. In questi casi, infatti, la merce sottratta non è mai uscita dalla sfera di sorveglianza del proprietario, cosicché l’autore del delitto non è mai veramente riuscito ad impossessarsene, godendone e disponendone liberamente.

Una recente decisione delle Sezioni Unite della Cassazione (SSUU, sentenza  n. 52117 del 2014) ha finalmente avallato quest’ultima impostazione, affermando laconicamente come non si possa mai parlare di furto consumato – ma, più correttamente, soltanto di tentativo – finché la merce sottratta rimane nell’ambito di sorveglianza del legittimo proprietario, essendo in tale ipotesi carente il requisito dell’impossessamento. Il superamento delle casse, perciò, non può automaticamente identificare il momento di passaggio dal furto tentato a quello consumato, dovendosi piuttosto verificare di volta in volta se, e quando, la merce sottratta sia uscita dalla sfera di controllo del proprietario.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.

Normativa stupefacenti: uso di gruppo e coltivazione di Marijuana ad uso personale

L’intera disciplina che in Italia punisce le condotte attinenti al traffico di sostanze stupefacenti è principalmente condensata in tre soli articoli del DPR 309/1990 ed, in particolare, negli artt. 73, 74 e 75 di quest’ultimo apparato normativo, così come risultanti dopo innumerevoli modifiche.

 

La normativa sugli stupefacenti

L’art. 73 definisce le condotte penalmente rilevanti attinenti al traffico ed allo spaccio di stupefacenti, l’art. 74 è dedicato alle condotte più gravi di associazione a delinquere finalizzata a commettere i delitti di cui al primo articolo ed, infine, l’art. 75 sanziona sul piano meramente amministrativo le condotte strumentali al consumo personale di stupefacenti, che non sono penalmente illecite.

In seguito all’esito del referendum abrogativo del 1993, infatti, l’ordinamento italiano ha improntato la disciplina sugli stupefacenti al principio per cui la repressione penale – peraltro caratterizzata da pene molto rigide – debba essere riservata alle condotte che contribuiscono al commercio e perciò anche al mercato degli stupefacenti. Al contrario, deve escludersi l’illiceità penale dell’uso personale di droghe – e pertanto anche di tutte quelle condotte che sono strumentali a quest’ultimo, come l’acquisto e la detenzione – rispetto al quale l’ordinamento limita la propria reazione sul piano meramente amministrativo.

In particolare, la fattispecie di cui all’art. 73 punisce le condotte di traffico e spaccio. Secondo quest’ultimo, è punito chiunque, non essendo autorizzato, “coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta o importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope”.

Il trattamento sanzionatorio, in seguito alla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, è invece tornato ad essere differenziato a seconda che la condotta abbia ad oggetto droghe “pesanti” (come per l’esempio la cocaina o l’eroina), oppure “leggere” (come la marijuana).

Per le droghe “pesanti”, infatti, la pena prevista è quella della reclusione da 8 a 20 anni e della multa da 25.822 a 258.228 euro.

Per le droghe “leggere”, invece, la pena prevista è quella della reclusione da 2 a 6 anni e della multa da 5.164 a 77.468 euro.

Questi limiti di pena particolarmente rigorosi sono tuttavia mitigati dal meccanismo previsto dal comma V° dell’art. 73, in forza del quale, “se il fatto commesso, per i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la quantità o la qualità delle sostanze, è di lieve entità“, è punito “soltanto” con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e la multa da 1.032 a 10.329 euro. Sensibili sconti di pena sono peraltro previsti anche per chi collabora con l’Autorità giudiziaria per le indagini.

Come già anticipato all’inizio, tuttavia, il legislatore ha scelto di non ritenere penalmente rilevanti quelle condotte che hanno ad oggetto sostanze stupefacenti, ma sono volte esclusivamente al consumo personale. L’art. 75 della normativa stupefacenti, perciò, esclude la responsabilità penale ed assoggetta a mere sanzioni amministrative (sospensione della patente di guida, della licenza di porto d’armi, del passaporto o del permesso di soggiorno) “chiunque, per farne uso personale, illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope“.

Il consumo di gruppo

Rispetto alla disciplina poc’anzi descritta, piuttosto problematica si è rivelata la concreta applicazione alle ipotesi di consumo di gruppo. E infatti piuttosto frequente che tra gli assuntori di stupefacenti – ed in particolare di marijuana – ci si organizzi per acquistare congiuntamente un certo quantitativo di droga  e quindi per consumarlo insieme. Ci si è perciò chiesti se questa tipologia di condotte andasse ricondotta ad una forma di spaccio, e quindi anche al grave reato di cui all’art. 73, oppure ad una fattispecie alternativa di consumo personale, trattandosi perciò di un mero illecito amministrativo di cui all’art. 75.

Particolarmente problematico risultava peraltro l’inquadramento delle ipotesi in cui il gruppo di consumatori, anziché acquistare congiuntamente la sostanza stupefacente, conferisse mandato ad uno del gruppo per effettuare l’acquisto di quest’ultima, da consumare successivamente insieme. In quest’ultima ipotesi, infatti, si realizza un doppio passaggio della sostanza, dallo spacciatore al mandatario, prima, e dal mandatario al gruppo, successivamente, così da far insorgere dubbi circa la possibilità di ravvisare in questi casi una forma di spaccio penalmente rilevante.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, tuttavia, hanno recentemente ribadito come queste ipotesi di consumo di gruppo di sostanze stupefacenti non rappresentino un’ipotesi di spaccio penalmente rilevante, bensì vadano correttamente ricondotte ad ipotesi di uso personale rilevanti soltanto sul piano soltanto amministrativo, sia nei casi di acquisto comune che di mandato all’acquisito collettivo ad uno degli assuntori.

In quest’ultimo caso, tuttavia, sarà necessario verificare che l’acquirente sia uno degli assuntori, che l’acquisto avvenga fin dall’inizio per conto del gruppo e che sia certa fin dall’origine l’identità dei componenti del gruppo, che debbono contribuire economicamente all’acquisto. Al di fuori di queste condizioni, pertanto, avremo una forma di spaccio penalmente rilevante ex art. 73.

La coltivazione ad uso personale

La fattispecie che a tutt’oggi risulta più problematica, tuttavia, è quella della coltivazione di piante da cui derivino le sostanze stupefacenti finalizzata al consumo personale.

Non sono infatti rari i casi in cui, soprattutto per quel che concerne la marijuana, il consumatore cerca di evitare di rifornirsi dal mercato illegale degli stupefacenti, spesso controllato dalla criminalità organizzata, per prodursi autonomamente la sostanza da consumare.

Il problema è dovuto al fatto che la condotta di “coltivazione” è prevista come reato dall’art. 73 e non è invece riprodotta dall’art. 75 nel novero di quelle condotte che, nei limiti in cui siano finalizzate al consumo personale, sono penalmente irrilevanti e sanzionate soltanto a livello amministrativo.

Ciò ha indotto la giurisprudenza di legittimità, dopo alcune aperture iniziali, ad assumere un atteggiamento particolarmente rigoroso, ritenendo che ogni forma di coltivazione di piante in grado di fornire sostanze idonee a produrre un effetto stupefacente sull’uomo debba considerarsi reato, a nulla rilevando il fatto che si tratti di condotte strumentali all’uso personale, che è penalmente lecito. Quello previsto dall’art. 73 della normativa stupefacenti sarebbe infatti un’ipotesi di reato di pericolo astratto, in cui il legislatore preferisce punire “a prescindere” la coltivazione di sostanza stupefacenti per il rischio che possano diffondersi ulteriormente.

Tale posizione è stata tuttavia fortemente criticata, in quanto ritenuta irragionevole. Se infatti il consumo di stupefacenti non costituisce reato, che senso ha ritenere lecito l’acquisto della sostanza dal mercato illegale – che alimento in tal modo la criminalità organizzata – e non invece la coltivazione “in proprio”, che invece non alimenta questo mercato?

Da questo punto di vista, va tuttavia segnalato un recente arresto della Corte di Cassazione che sembra rappresentare una prima apertura in questo senso. La Corte veniva chiamata a stabilire se la coltivazione domestica di due sole piantine di marijuana destinate al proprio consumo personale costituisse reato. In questo caso, la Cassazione ha escluso che tale fatto potesse costituire reato ex art. 73 dato, in quanto giudicato inoffensivo, dato che il quantitativo irrisorio di sostanza stupefacente che quelle due piante sarebbero state in grado di produrre non era idoneo ad aumentare significativamente la disponibilità di droga e non era quindi prospettabile alcuna ulteriore diffusione della sostanza.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.