Il mobbing: di cosa si tratta e come può essere contrastato.

Il termine “mobbing” deriva dall’inglese “to mob” ed ha il significato di “attaccare”, “accerchiare”.
Il vocabolo ha tuttavia assunto un significato tecnico preciso, quale forma di sistematica aggressione sul posto di lavoro ai danni di un dipendente.

In particolare, il mobbing viene definito come la reiterazione sistematica nel tempo di una serie di comportamenti volti ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, aventi dunque carattere persecutorio e discriminatorio.

In ambito sociologico si sono messi a punto sette parametri utili per riconoscere il fenomeno.
1. Contesto: i comportamenti mobbizzanti devono avvenire sul posto di lavoro;
2. Frequenza: Le azioni ostili non devono essere sporadiche, ma ripetersi con una certa frequenza; Per parlare di mobbing si ritengono generalmente necessari alcuni episodi al mese;
3. Durata: La situazione conflittuale non deve essere episodica, bensì deve protrarsi per un arco temporale piuttosto lungo, di almeno 3/6 mesi, a seconda dell’intensità degli attacchi;
4. Tipo di azioni: I comportamenti mobbizzanti devono essere riconducibili alle seguenti categorie: a) attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; b) isolamento sistematico; c) cambiamenti nelle mansioni lavorative; d) attacchi alla reputazione; e) violenze e/o minacce;
5. Dislivello di potere: La vittima deve trovarsi in una posizione di subalternità psicologica, di debolezza. Ciò tuttavia non significa che debba necessariamente esserci una sovraordinazione gerarchica tra il mobber e la vittima. Il mobbing può infatti essere realizzato sia da un superiore (mobbing verticale) che da uno o più colleghi di pari livello (mobbing orizzontale);
6. Andamento progressivo:la condotta denigratoria deve aver raggiunto un certo livello di asprezza, tanto da ingenerare nella vittima un crescente grado di disagio psichico, e deve essersi indirizzata verso una vittima o un gruppo di vittime riconoscibili;
7. Intento persecutorio: Dal comportamento mobbizzante deve trasparire un disegno vessatorio coerente e finalizzato ad allontanare la vittima dal posto di lavoro, ad isolarla, a metterla in ridicolo, a discriminarla.

Il mobbing costituisce un illecito: sia dal punto di vista civile, sia da quello penale.

Mobbing e responsabilità civile

Sotto il profilo civilistico, il mobbing comporta una responsabilità di natura risarcitoria gravante in capo sia al responsabile del comportamento vessatorio che, qualora le due figure non coincidessero, al datore di lavoro.

I sensi dell’art. 2087 CC, infatti, “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza è la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Il capo dell’impresa è perciò chiamato a vigilare sulla tutela della personalità morale dei suoi dipendenti ed a risponderne qualora lui stesso, od alcuni dei suoi collaborati, dovessero aggredire la dignità e la libertà morale di qualcuno dei suoi collaboratori, della cui integrità fisica e morale è garante.
Il lavoratore colpito da comportamenti “mobbizzanti” potrà pertanto chiedere di essere risarcito sia dei danni patrimoniali, sia di quelli non patrimoniali, quali le sofferenze psicologiche patite.
Inoltre, qualora il comportamento mobbizzante si fosse spinto fino al licenziamento discriminatorio del lavoratore, quest’ultimo potrà impugnare il licenziamento, chiedendo il reintegro sul posto di lavoro, qualora ne ricorrano i presupposti.

Mobbing e responsabilità penale

Per quel che concerne invece la responsabilità penale, il mobbing è stato storicamente inquadrato dalla giurisprudenza alla luce della fattispecie di maltrattamenti.
I sensi dell’art. 572 CP, invero, risponde del delitto di maltrattamenti “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professionale o di un’arte”.

La fattispecie di maltrattamenti, tradizionalmente concepita nel contesto familiare, è infatti stata nel tempo estesa alla tutela di rapporti di diversa natura, tra i quali, appunto, quelli di tipo professionale e di prestazione d’opera.
Nonostante ciò, la giurisprudenza ha continuato a leggere la norma pretendendo, anche in queste ultim’ultime ipotesi, il requisito della c.d. “para-familiarità”, ovverosia la contestualizzazione delle condotte nell’ambito di un rapporto personalizzato tra l’autore e la vittima, improntato a informalità ed a discrezionalità nell’esercizio dei poteri datoriali, nonché sulla fiducia del dipendente sul regolare svolgimento del rapporto di lavoro.

Tutto questo ha indotto la giurisprudenza nel passato ad escludere che il reato di maltrattamenti potesse essere contestato qualora il mobbing fosse realizzato all’interno di imprese medio-grandi, dove il rapporto tra l’autorità datoriale ed il dipendente risulta generalmente più spersonalizzata.

La Corte di Cassazione ha tuttavia recentemente chiarito questo aspetto, precisando come il dato dimensionale dell’azienda non sia decisivo ai fini della possibilità di contestare il reato di maltrattamenti.
Ciò che rileva è infatti la qualità dei rapporti all’interno dei singoli uffici e reparti, che devono appunto essere di tipo personale, a prescindere dal numero di dipendenti coinvolti ed impegnati nella ditta.
Mentre nelle realtà imprenditoriali più piccole, perciò, sarà pressoché automatica la possibilità di inquadrare il fenomeno mobbizzante nel delitto di maltrattamenti; in quelle più grandi, pur non potendo escludersi a priori, sarà necessario svolgere un ulteriore accertamento, volto ad approfondire sul piano qualitativo la natura dei rapporti esistenti tra vittima e responsabile della condotta illecita.

Nelle ipotesi in cui non sussistessero gli estremi per la contestazione della fattispecie di maltrattamenti, specie nella realtà lavorative più grandi, non resterà che ravvisare l’eventuale rilievo penale delle singole condotte mobbizzanti (alla luce delle fattispecie di ingiurie, diffamazione, minaccia, violenza privata ed estorsione), oppure tentare di inquadrare il fenomeno nel suo complesso alla luce della diversa fattispecie di atti persecutori (altrimenti nota come “stalking”), nonostante le ritrosie della giurisprudenza ad avvalersi di questa figura delittuosa nei casi di mobbing.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.

La scriminante sportiva: quali sono i limiti che giustificano i comportamenti violenti nello sport?

E’ a tutti noto come lo svolgimento costante di attività sportiva abbia effetti positivi per il benessere psicofisico della persona. Non di rado, tuttavia, la pratica delle diverse discipline sportive comporta scontri tra gli atleti, talvolta anche violenti, che possono cagionare infortuni più o meno gravi. Occorre allora chiedersi quando questi comportamenti possano configurare ipotesi di responsabilità penale. Proprio a questo fine, la giurisprudenza ha elaborato l’istituto della c.d. “scriminante sportiva”, vediamo di cosa si tratta.

Vanno innanzitutto distinte tre diverse tipologie di discipline sportive: 1) quelle che non ammettono alcun tipo di contatto fisico tra i concorrenti (quali, ad esempio, l’atletica o il golf); 2) quelle che ammettono il contatto fisico in maniera incidentale (quali il calcio o la pallacanestro); 3) e quelle che, infine, addirittura fanno della violenza contro l’avversario lo scopo stesso della pratica sportiva (il pugilato ne è un esempio emblematico).

Quanto alla prima categoria, quella degli sport che non ammettono alcun tipo di condotta violenta, il problema è di facile risoluzione. Qualsiasi condotta violenta che si traduca in percosse o lesioni personali a carico dell’avversario si traduce immediatamente in un’ipotesi di responsabilità penale, a titolo di dolo o colpa a seconda che lo scontro sia voluto oppure soltanto il frutto di negligenza o imprudenza.

Maggiormente complessa è la soluzione del problema in relazione agli sport che invece contemplano, in varia misura, la violenza quale modalità di esercizio della pratica sportiva. Rispetto a questi ultimi, infatti, è lo stesso regolamento della disciplina ad ammettere una certa quantità di violenza e perciò a giustificarne i possibili esiti lesivi.

Secondo un primo orientamento, a dire il vero piuttosto risalente, in queste ipotesi ricorrerebbe la causa di giustificazione di cui all’art. 50 del Codice penale. Secondo quest’ultima disposizione, infatti, è da considerarsi lecito il reato commesso col consenso dell’avente diritto, ovverosia del titolare del bene giuridico offeso. In sostanza, al momento del tesseramento o comunque della partecipazione all’attività sportiva l’atleta presterebbe implicitamente il consenso al compimento di condotte violente e potenzialmente lesive ai suoi danni, esonerando in tal modo l’avversario da ogni responsabilità.

Un differente orientamento ha invece proposto di inquadrare queste situazioni alla luce dell’art. 51 del Codice penale, che giustifica quelle condotte potenzialmente illecite che avvengono nell’esercizio di un diritto tutelato dall’ordinamento. Il diritto di esercitare attività sportive assume infatti protezione di rango addirittura costituzionale, in quanto capace di consentire lo sviluppo della dimensione psicofisica e sociale della persona. Il tutto, naturalmente, entro i limiti del rispetto del regolamento proprio della specifica disciplina sportiva e del consenso di coloro che vi partecipano.

Entrambe le ricostruzioni suddette sono tuttavia state oggetto di obiezioni difficilmente superabili, che ne hanno evidenziato l’inadeguatezza. Innanzitutto, il consenso in grado di giustificare deve essere un consenso espresso, informato e riferito ad un fatto determinato: non può pertanto ritenersi sufficiente a giustificare un consenso prestato con riferimento ad ogni generico rischio potenzialmente riconducibile allo svolgimento di una generica attività sportiva. In secondo luogo, ai sensi dell’art. 5 del Codice civile, l’integrità fisica è un bene largamente indisponibile, rispetto al quale il consenso dell’interessato non può validamente giustificare alcuna lesione irreversibile della propria incolumità.

Proprio per superare queste difficoltà, la giurisprudenza più recente e la dottrina maggioritaria hanno ormai pacificamente ricostruito il fenomeno alla luce della c.d. “ scriminante sportiva ”, ovverosia di una causa di giustificazione tacita e non legalmente definita, che trae fondamento proprio nel rilievo costituzionale che tale pratica assume.

A questo proposito, si sono perciò distinte tre diverse tipologie di condotta:

  • In primo luogo, vengono in rilievo quegli scontri violenti che avvengono nel pieno rispetto del regolamento proprio della disciplina sportiva praticata. Entro questi limiti, infatti, l’evento lesivo è sempre e comunque giustificato, in quanto rientrante in quell’area di rischio consentito che ogni disciplina sportiva ineluttabilmente contempla. Il rispetto del regolamento sportivo, perciò, esonera l’atleta da ogni forma di responsabilità penale. Il calciatore che, ad esempio, provochi lesioni ad un concorrente nell’ambito di uno scontro di gioco pienamente regolamentare, non può mai esserne chiamato a rispondere della sua condotta, né sul piano civilistico né su quello penale, appunto perché giustificato dal la scriminante sportiva.
  • In secondo luogo, vengono invece in rilievo quegli scontri di gioco che, nonostante siano trasgressivi del regolamento della pratica sportiva esercitata, non siano intenzionalmente lesivi e risultino comunque strumentali al raggiungimento dell’obiettivo di gioco. Emblematico può essere l’esempio del calciatore che, nella foga agonistica volta al raggiungimento della palla, colpisca violentemente l’avversario commettendo fallo. In queste ipotesi, si tende ad escludere la responsabilità dolosa dell’atleta. A secondo dei casi, tuttavia, potrà residuare in capo a quest’ultimo un profilo di responsabilità penale per lesioni personali colpose e conseguentemente anche una responsabilità di natura risarcitoria.
  • In terzo luogo, vanno considerate quelle condotte violente ed intenzionalmente lesive che, non soltanto risultino trasgressive del regolamento proprio della disciplina sportiva, ma che addirittura non risultano neppure funzionali all’obiettivo di gioco. Si tratta di episodi in cui la pratica sportiva rappresenta solo l’occasione in cui ferire l’avversario, del tutto a prescindere dalle esigenze di gioco. Si pensi in proposito al caso emblematico del calciatore che volontariamente colpisca il concorrente in un momento di gioco fermo oppure in una zona del campo lontana da quella cui si trova la palla. In queste ipotesi, non ricorrerà alcuna giustificazione e l’atleta potrà certamente essere chiamato a rispondere, sia sul piano penale che su quello civile, del danno procurato all’avversario. In particolare, potranno di volta in volta ricorrere le fattispecie penali di percosse e lesioni personali.

Concludendo, va tuttavia ricordato come la giurisprudenza sia più o meno rigida nell’applicazione di questi principi a seconda del contesto nel quale si esercita l’attività sportiva. Mentre nelle competizioni agonistiche, infatti, si considerano leciti comportamenti che, nei limiti delle regole di gioco, posso risultare anche molto violenti e potenzialmente lesivi dell’incolumità fisica degli atleti, nelle competizioni amatoriali si pretendere dai giocatori una maggiore prudenza. In quest’ultimo contesto, perciò, sarà molto più agevole ravvisare una responsabilità penale nel comportamento dell’atleta che procuri lesioni all’avversario, mentre nelle competizioni a carattere agonistico risulterà più agevole riconoscere la c.d. “scriminate sportiva”.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.