Violazione degli obblighi di assistenza familiare

Com’è noto, contrarre matrimonio ed avere figli sono tutte esperienze che comportano l’assunzione di importanti obblighi e doveri, sia di natura personale che tipo patrimoniale. Trascurare questi obblighi può altrimenti comportare una violazione degli obblighi di assistenza familiare penalmente rilevante. Vediamo in quali casi ciò può accadere.

L’art. 143 C.C. ci ricorda come dal matrimonio derivino per entrambi i coniugi l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono inoltre tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni [materiali] della famiglia. Per quanto riguarda gli obblighi verso i figli, l’art. 147 C.C. ci rammenta come i genitori [ciò anche al di fuori del matrimonio] abbiano l’obbligo di mantenere, istruire, educare  e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni.

La violazione di detti obblighi può innanzitutto avere delle conseguenze sul piano civilistico, comportando l’addebito dell’eventuale separazione al coniuge inadempiente e, sopratutto, l’obbligo di quest’ultimo al pagamento di una somma mensile a titolo di mantenimento del coniuge e/o dei figli ancora incapaci a provvedere alle proprie esigenze.

Sul piano penale, invece, le conseguenze scaturenti dall’inadempimento di tali obblighi sono definite dall’art. 570 C.P., ai sensi del quale “Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale della famiglia, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori, o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire duecentomila a due milioni. Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:
1) malversa o dilapida i beni del figlio minore  o del pupillo o del coniuge;
2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore , ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti  o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa“.

Il primo comma della suddetta norma, sanziona l’inadempimenti degli obblighi di natura personale scaturenti dal matrimonio o dalla filiazione.

La parte della disciplina che trova più frequente applicazione, tuttavia, è la seconda, quella volta a presidiare gli obblighi patrimoniali che riguardano la famiglia. Secondo quest’ultima, è punito colui – coniuge o genitore – che faccia mancare i mezzi di sussistenza al proprio congiunto.

Il numero dei potenziali soggetti attivi del reato comprende quindi coniugi e genitori (di figli sia legittimi che naturali, ovviamente), ma anche nonni e figli maggiorenni – visto che la norma fa riferimento agli ascendenti e discendenti.

Per quel che attiene alla condotta punita, dottrina e giurisprudenza concordano sul fatto che il concetto di “sussistenza andrebbe inteso nel senso di soddisfazione delle basilari esigenze di vita: perciò, non soltanto vitto e alloggio, ma anche spese di vestiario, visite mediche, istruzione etc..  Allo stesso tempo, però, la sussistenza avrebbe portata meno ampia del concetto civilistico di ‘”mantenimento“, che – in sede di separazione o divorzio – si determina in base al tenore di vita precedente alla divisione dei due coniugi.

L’illecito penale, peraltro, non viene meno qualora il figlio o il coniuge abbia comunque goduto dei mezzi di sussistenza necessari grazie al contributo di una terza persona (esempio classico è quello del figlio minore mantenuto a spese di uno solo dei due genitori oppure dei nonni).

Ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 3 della L. 64/2006 e all’art. 12-sexies della L. 898/1970, tuttavia, allorquando in seguito alla separazione o al divorzio il coniuge o il genitore sia stato gravato dal Tribunale dell’obbligo di corrispondere una somma mensile a titolo di contributo per il mantenimento del congiunto e quest’ultimo non vi adempia, il reato di cui sopra scatta automaticamente, senza alcun bisogno di verificare se la condotta abbia fatto venir meno i mezzi di sussistenza.

Ciò vale non solo quando anche un singolo versamento sia stato volutamente omesso, ma anche quando, più semplicemente, la cifra corrisposta sia inferiore a quella stabilita dal Tribunale.

Il coniuge e/o il genitore gravato di tale obbligo, infatti, qualora per difficoltà economiche sopraggiunte non sia più in grado di far fronte all’obbligazione stabilita dal Giudice, non ha la facoltà di autoridursi l’assegno di mantenimento, bensì deve ricorrere nuovamente al Tribunale per chiedergli di rideterminare la somma dovuta in relazione alle mutate circostanze. Altrimenti, il rischio è di essere chiamato a rispondere penalmente dell’inadempimento.

Un’ultima osservazione si impone in punto di procedibilità. Infatti, mentre la violazione degli obblighi familiari è procedibile d’ufficio qualora sia commessa a danno di figli minorenni, quando quest’ultima riguarda il coniuge o comunque soggetti maggiorenni è procedibile soltanto a querela di parte. E’ quindi indispensabile, affinché il responsabile venga penalmente perseguito, che l’interessato ne faccia espressamente richiesta all’Autorità giudiziaria entro il termine perentorio di tre mesi.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.

Acquisto di merce contraffatta: quali conseguenze si rischiano?

Quello della merce contraffatta – sopratutto a danno delle griffe di abbigliamento e accessori più note – è un mercato indubbiamente florido in Italia. Basta passeggiare per le vie di qualsiasi centro turistico per imbattersi in una miriade di venditori ambulanti di borse, occhiali e vestiti che riproducono – talvolta con risultati davvero ottimali – le effigi delle più note case di moda, ovviamente proponendoli a prezzi ben diversi rispetto agli originali. Ma cosa si rischia ad acquistare uno quei prodotti? Quali conseguenze può determinare l’acquisto di merce contraffatta?

Per rispondere a questa domanda, è utile ripercorrere brevemente quella che è stata in materia l’evoluzione giurisprudenziale e normativa degli ultimi anni.

Partiamo innanzitutto da qualche dato normativo. Ai sensi dell’art. 473 C.p. è punito con la reclusione dai 6 mesi ai 3 anni e la multa da 2.500 a 25.000 euro chiunque contraffà o altera marchi o segni distintivi di prodotti industriali. Ai sensi dell’art. 474 C.p., invece, è punito con la reclusione da 1 a 4 anni e la multa da 3.500 a 35.000 euro chiunque importa, detiene per la vendita, vende o pone altrimenti in circolazione prodotti industriali con marchi e/o segni distintivi contraffatti.

Tutto ciò ha indotto la giurisprudenza più risalente a ritenere che chiunque acquisiti tali prodotti contraffatti commetta il grave delitto di ricettazione. Ai sensi dell’art. 648 C.p. invero, è punito con la reclusione da 2 a 8 anni e la multa da 516 a 10.329 euro chiunque, al fine di procurarsi un profitto, acquista o riceve cose provenienti da un qualsiasi delitto. La stessa pena è tuttavia limitata alla reclusione fino a 6 anni e alla multa sino a 516 euro qualora il fatto sia di particolare tenuità.

Una volta chiarita la natura penalmente illecita dell’attività di contraffazione ai sensi del succitato art. 473 C.p., invero, diventava automatico ritenere che colui che acquistasse consapevolmente quella merce contraffatta dovesse rispondere del grave delitto di ricettazione, eventualmente anche in concorso con il delitto di cui all’art. 474 C.p. allorquando l’acquisto fosse finalizzato alla rivendita (v. Cassazione, SS.UU. n. 23427 del 9 gennaio 2001).

In proposito, peraltro, la giurisprudenza aveva già da tempo precisato come il dolo specifico della ricettazione (“al fine di procurarsi un profitto”) sussistesse anche in capo a colui che dall’acquisto ottenesse un mero vantaggio personale, come quello di “sfoggiare” un capo di marca acquistato ad un prezzo nettamente inferiore (v. Cass., sez. II, n. 11083 del 12 ottobre 2000).

Orbene, proprio per evitare conseguenze penali tanto gravi in capo al semplice acquirente della merce contraffatta, nel 2005 interveniva il legislatore. In particolare, l’art. 1, co. 7, del D.L. 35/2005, successivamente convertito con modificazioni dalla L. 80/2005, introduceva la sanzione amministrativa da 100 a 7.000 euro per l’acquirente finale che acquistasse a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti o di proprietà industriale. La medesima disposizione prevedeva inoltre la confisca amministrativa della merce contraffatta e, salvo che il fatto costituisca più grave reato, la sanzione amministrativa da da 20.000 a 1 milione di euro qualora lo stesso acquisto sia realizzato da un operatore commerciale o comunque un soggetto diverso dall’acquirente finale.

Si rendeva a quel punto necessario chiarire quando ricorresse una responsabilità penale e quando semplicemente quella amministrativa, dato che lo stesso comportamento risultava a quel punto astrattamente punito da norme diverse.

Intervenivano quindi le SS. UU. della Cassazione che, con la sentenza n. 22225 dell’8 giugno 2012, enunciavano il seguente principio: “L’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell’illecito amministrativo previsto dal D.L. 35/2005 e convertito con L. 80/2005 (così come modificato dalla L. 99/2009) [da 100 a 7.000 euro di sanzione amministrativa] e non di ricettazione ex art. 648 C.p”. Questo perché l’illecito amministrativo si poneva ormai in termini di specialità rispetto alla generica previsione penale e pertanto non poteva che prevalere, escludendo la rilevanza penale del fatto.

Più recentemente, con la sentenza n. 3000 del 22 gennaio 2016, la Cassazione ha avuto modo di ribadire ulteriormente quanto già affermato dalle Sezioni Unite del 2012, chiarendo come “la nozione di acquirente finale di merce contraffatta – che consente di escludere la punibilità ex art. 648 C.p. [ricettazione] – va intesa in senso restrittivo, nel senso che può essere considerato tale solo ed esclusivamente colui che acquisti il bene contraffatto per uso strettamente personale, e, quindi, resti estraneo non solo al processo produttivo ma anche a quello diffusivo  del prodotto contraffatto: di conseguenza risponde del delitto di ricettazione chi, acquistando un bene contraffatto, contribuisca alla ulteriore distribuzione e diffusione di esso in quanto non lo destina a sé, ma ad altri, essendo irrilevante se l’ulteriore distribuzione avvenga a titolo oneroso o gratuito“.

L’introduzione dell’illecito amministrativo nel 2005, pertanto, non ha del tutto escluso il ricorso del delitto di ricettazione in relazione all’acquirente della merce contraffatta. Qualora si accertasse che l’acquisto del bene contraffatto è volto alla cessione a terzi, si pensi per ipotesi anche alla mera regalia in favore di parenti o amici, rimane inalterata la possibilità di rispondere del grave delitto di ricettazione.

Avv. R. Spagnolo