L’Avvocato d’ufficio, chi è e da chi viene pagato?

Molto spesso i “non addetti ai lavori” tendono a confondere istituti quali il difensore d’ufficio ed il patrocinio a spese dello Stato e pertanto a non comprendere bene per quale motivo dovrebbero retribuire l’avvocato d’ufficio che abbia svolto attività in loro favore. A confondere le idee si aggiunge peraltro la vasta cinematografia giudiziaria americana che, essendo appunto ambientata negli Stati Uniti, riporta un modello di difensore d’ufficio piuttosto differente da quello presente nel nostro ordinamento, rendendo così difficile per il cittadino orientarsi.

Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza sul tema, distinguendo tre diverse figure.

L’avvocato di fiducia

Il difensore di fiducia è, com’è intuibile, quell’avvocato che viene scelto liberamente dal cittadino coinvolto in un processo penale. Tra i due si instaura perciò un rapporto fiduciario e, naturalmente, in cambio della prestazione professionale ricevuta il cliente si impegna a retribuire il professionista.

In seguito alle riforme degli ultimi anni, peraltro, non esiste più alcun regime tariffario, con la conseguenza che avvocato e cliente sono liberi di convenire liberamente il prezzo della prestazione professionale. Solo qualora non vi sia stata alcuna pattuizione in merito e la quantificazione dell’onorario professionale venga rimessa alla decisione di un Giudice, quest’ultimo sarà tenuto a determinare quest’ultimo sulla base di alcune tabelle ministeriali che sono attualmente previste dal DM n. 55/2014.

Tuttavia, qualora l’avvocato prescelto sia iscritto nell’apposito elenco ed il cliente abbia i necessari requisiti reddituali, anche l’avvocato di fiducia potrà difendere il proprio cliente senza oneri per quest’ultimo, ovverosia a spese dello Stato. In questi casi, infatti, l’avvocato scelto dal cittadino non abbiente viene retribuito direttamente dallo Stato.

L’avvocato d’ufficio

Per comprendere appieno il ruolo del difensore d’ufficio, occorre tenere in considerazione come nel processo penale la difesa tecnica sia obbligatoria. Il cittadino indagato o imputato di un reato non può scegliere se avere o meno un difensore, ma è obbligato ad averne uno.

Nelle ipotesi in cui il cittadino non risponda all’invito dell’Autorità giudiziaria a procurarsi un avvocato di fiducia, quest’ultima ne nomina uno d’ufficio, scelto nell’ambito della lista degli avvocati che esercitano la professione in ambito penalistico e che hanno dato la loro disponibilità ad assumere difese d’ufficio. In genere, la maggior parte degli avvocati penalisti esercita la professione, di volta in volta, sia come avvocato fiduciario e sia come avvocato d’ufficio. L’assistito rimane in ogni caso libero di rivolgersi ad un avvocato di sua fiducia in qualsiasi momento, anche dopo l’assegnazione di quello d’ufficio.

La circostanza che il difensore d’ufficio sia scelto (con una procedura automatizzata) dall’Autorità giudiziaria, anziché dall’interessato, non incide in nessun modo sul diritto alla retribuzione del professionista. Il cittadino che gode della prestazione professionale dell’avvocato d’ufficio ha infatti l’obbligo di pagarne le relative spettanze professionali, al pari di quel che accadrebbe se avesse nominato un suo difensore fiduciario.

L’avvocato d’ufficio non è infatti in alcun modo un “avvocato gratuito” ed ha l’unica particolarità di essere stato scelto nell’ambito di un certo procedimento penale dall’Autorità giudiziaria anziché dall’interessato. Anche per il difensore d’ufficio, così come per quello di fiducia, vale la possibilità di essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato, qualora ve ne siano i requisiti previsti dalla legge.

Il (gratuito) patrocinio a spese dello Stato

Il patrocinio a spese dello Stato è quell’istituto che serve a garantire la difesa dei cittadini non abbienti che, non avendo una sufficiente disponibilità economica, non sarebbero altrimenti in grado di procurarsi una difesa tecnica.

Possono essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato sia i cittadini assistiti da un avvocato di fiducia e sia quelli assistiti dall’avvocato d’ufficio. In entrambi i casi, una volta ammessi, il difensore verrà integralmente retribuito dallo Stato, mentre l’interessato potrà godere gratuitamente della sua prestazione professionale. Va tuttavia precisato come soltanto gli avvocati iscritti nell’apposita lista tenuta dal locale Consiglio dell’Ordine degli Avvocati possano assumere difese col gratuito patrocinio a spese dello Stato.

Al 2015, per essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato in ambito penale (il “gratuito” patrocinio è infatti previsto anche in ambito civile) è necessario che l’interessato sia titolare di un reddito annuo imponibile, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore ad euro 11.396,24. Se l’interessato convive con il coniuge o altri familiari, ai fini del calcolo del reddito è necessario sommare tutti i redditi dei componenti della famiglia, ma il tetto massimo è elevato di euro 1.032,91 per ciascun familiare convivente.

Chi possiede questi requisiti ha il diritto di farsi assistere gratuitamente da un avvocato, che verrà successivamente retribuito dallo Stato. Chiunque non possegga questi requisiti e venga indagato o imputato di un reato, invece, avrà l’obbligo di retribuire il suo difensore, del tutto a prescindere dal fatto che quest’ultimo sia stato nominato dall’interessato oppure sia stato nominato d’ufficio dall’Autorità giudiziaria.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.

Furto al supermercato e superamento delle casse

Ogni giorno in Italia vengono commessi centinaia di piccoli furti ai danni di negozi e centri commerciali. In proposito, è recentemente intervenuta un’importante sentenza dalla Cassazione circa l’esatto significato da attribuire al superamento della barriera della casse senza aver dichiarato – e quindi pagato – la merce nelle ipotesi di furto al supermercato.

All’interno dei supermercati, dove l’acquirente è libero di servirsi autonomamente dagli scaffali della merce che intende comprare, infatti, diventa talvolta particolarmente difficile stabilire il confine tra il comportamento lecito, il tentativo di furto ed il furto consumato.

Ma andiamo con ordine.

Secondo l’art. 624 C.p., invero, commette il delitto di furto “chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri”.

La condotta illecita si struttura quindi in due fasi distinte, che a seconda dei casi possono coincidere oppure risultare – anche cronologicamente – distinte.

Vi una prima fase, quella della “sottrazione”, in cui l’autore apprende fisicamente il bene dal luogo in cui l’aveva riposto il suo legittimo proprietario.

Per il perfezionamento del reato serve però un passaggio ulteriore: occorre infatti che si realizzi “l’impossessamento”, ovverosia che l’autore del furto cominci a disporre liberamente del bene sottratto, al di fuori della sfera di controllo del legittimo proprietario.

Finché non si realizza anche l’impossessamento il furto non è perfezionato e l’autore potrà semmai essere punito – più lievemente – soltanto a titolo di tentativo.

Ai sensi dell’art. 56 C.p., infatti, è punito a titolo di tentativo – con una riduzione di pena da 1/3 ai 2/3 rispetto alla fattispecie consumata – “chi commette atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un certo delitto, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.

Ciò significa che l’apprensione della merce dagli scaffali del supermercato, generalmente lecita in quando preordinata al successivo acquisto alla cassa, diviene invece penalmente illecita a titolo di tentativo quando le modalità dell’azione risultano idonee ed inequivocabilmente dirette a commettere un furto, ovverosia ad impossessarsi successivamente della merce senza pagarla.

Finché il ladro si muove all’interno del supermercato con la merce occultata indosso, e quindi con l’inequivocabile intenzione di non pagarla, si rimane perciò nell’ambito del furto tentato. Nonostante vi sia stata la sottrazione, infatti, non v’è ancora stato l’impossessamento: dato che l’autore del reato non può ancora disporre liberamente della merce sottratta (tant’è vero che è ancora costretto ad occultarla) ed il bene appreso rimane ancora nella sfera di potenziale vigilanza del legittimo proprietario.

Quand’è allora che il taccheggio al supermercato, da mero tentativo, diventa un furto perfezionato?

A lungo la giurisprudenza ha dato a questa domanda una risposta convenzionale e di facile applicazione, ma che nella sua rigidità non risultava del tutto appagante.

Il momento dirimente veniva infatti identificato con il superamento delle casse. Prima di quel momento, la merce sottratta rimane nell’area di controllo del supermercato e perciò l’autore sorpreso con la merce occultata rispondeva soltanto di tentato furto; solo successivamente, col superamento delle casse,  si riteneva realizzato l’impossessamento della merce e quindi anche il passaggi dal furto tentato a quello consumato.

Nella sua rigidità, tuttavia, questa impostazione è stata oggetto di critiche. Si faceva infatti notare come, piuttosto frequentemente, capitasse che l’addetto alla cassa nutrisse dei sospetti su di un certo cliente e, anziché bloccarlo immediatamente, allertasse la vigilanza, che eseguiva il controllo mirato del sospetto all’uscita dell’esercizio commerciale, sorprendendo il responsabile con la merce rubata.

In queste ipotesi, si faceva correttamente notare come, nonostante il superamento delle casse, non si potesse ancora parlare di furto consumato, bensì fosse più corretto applicare la – più favorevole – disciplina sul tentativo. In questi casi, infatti, la merce sottratta non è mai uscita dalla sfera di sorveglianza del proprietario, cosicché l’autore del delitto non è mai veramente riuscito ad impossessarsene, godendone e disponendone liberamente.

Una recente decisione delle Sezioni Unite della Cassazione (SSUU, sentenza  n. 52117 del 2014) ha finalmente avallato quest’ultima impostazione, affermando laconicamente come non si possa mai parlare di furto consumato – ma, più correttamente, soltanto di tentativo – finché la merce sottratta rimane nell’ambito di sorveglianza del legittimo proprietario, essendo in tale ipotesi carente il requisito dell’impossessamento. Il superamento delle casse, perciò, non può automaticamente identificare il momento di passaggio dal furto tentato a quello consumato, dovendosi piuttosto verificare di volta in volta se, e quando, la merce sottratta sia uscita dalla sfera di controllo del proprietario.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.