Usura: di cosa si tratta e quali sono le conseguenze.

 Se è a tutti nota la sinistra figura dello “strozzino”, del “cravattaro”, dell’arcigno usurario che approfitta delle difficoltà economiche altrui per pretendere la corresponsione di interessi eccessivi sul danaro prestato, forse è meno noto che non di rado profili di usura possono emergere anche nei “normali” contratti che consumatori ed imprenditori stipulano con le banche e le altre istituzioni finanziarie.

Vediamo allora di capire come la legge definisce l’usura e quali conseguenze commina in queste ipotesi.

Di cosa si tratta?

Ai sensi dell’art. 644 del Codice penale ricorre un’ipotesi di usura tutte le volte in cui qualcuno si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di danaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari.

L’usurarietà degli interessi è definita dalla legge in due modi.

Gli interessi applicati sono sempre considerati usurari quando superano la soglia definita trimestralmente dalla Banca d’Italia per conto del Ministero dell’economia.  In questo caso si parla di usura in senso “oggettivo”.

Ricorre invece un’ipotesi di usura “soggettiva” nelle ipotesi in cui il tasso di interesse richiesto, pur essendo inferiore al predetto valore soglia, risulti comunque sproporzionato, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, quando chi lo ha dato o promesso si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria.

In entrambe queste situazioni ricorre un’ipotesi di usura giuridicamente rilevante.

Per completezza, va infine ricordato come anche l’intermediario del finanziamento usurario sia soggetto alle stesse conseguenze penali di chi presta il denaro ad interessi spropositati.

Quali sono le conseguenze dell’usura?

Per quel che concerne le conseguenze, l’usura rileva sia sul piano penale che su quello civile.

Sul piano penale, l’usura rappresenta un delitto ed è severamente punita ai sensi dell’art. 644 C.p. con la reclusione da 2 a 10 anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro.

Queste pene risultano peraltro aggravate, ovverosia aumentate da un terzo fino alla metà, nelle seguenti ipotesi:

  • Se il colpevole ha agito nell’esercizio di un’attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria immobiliare;
  • Se il colpevole ha chiesto in garanzia del credito usurario partecipazioni o quote societarie, aziendali o proprietà immobiliari;
  • Se il reato è commesso in danno di chi si trova in stato di bisogno;
  • Se il reato è commesso da chi si trova sottoposto con provvedimento definitivo a misura di prevenzione.

Infine, va ricordato come il responsabile della condotta usuraria sia sempre colpito dalla confisca del prezzo o del profitto del reato o di altri beni ed utilità di valore equivalente.

Anche sul piano civilistico le conseguenze sono tutt’altro che indifferenti.

In conseguenza del reato, infatti, la vittima di usura può richiedere il risarcimento di ogni danno, morale e materiale, subito in conseguenza del reato.

Inoltre, l’art. 1815 C.C. dispone che ogni clausola che prevede interessi usurari debba intendersi nulla. Di conseguenza, una volta accertata l’usurarietà delle condizioni contrattuali, la vittima ha il diritto di chiedere la restituzione di tutti gli interessi fin lì pagati. Rimane invece dovuta la restituzione del capitale preso a prestito.

Ai sensi dell’art. 1448 CC, peraltro, il contraente ha diritto di ottenere la rescissione contrattuale quando quest’ultimo preveda una evidente sproporzione tra le prestazioni delle due parti e quest’ultima sia stata causata dall’approfittamento dello stato di bisogno della controparte più debole.

Come riconoscere un contratto usurario?

Riconoscere l’usurarietà di un finanziamento non è operazione semplice e, il più delle volte, richiede l’analisi di un esperto della materia. Ciò nonostante si possono fare le seguenti considerazioni.

Ogni tre mesi il Ministero dell’economia rileva il TEGM, ovverosia il “tasso effettivo globale medio” praticato in quel periodo dagli operatori finanziari in relazione alle diverse categorie omogenee di operazione. Rispetto a questo valore è possibile determinare il c.d. valore soglia, ovverosia il tasso di interesse superato il quale scatta l’usura. Per uno storico dei TEGM rilevati negli anni scorsi si può consultare il sito istituzionale della Banca d’Italia.

In particolare, fino al 14 maggio 2011 questa soglia massima, sopra la quale scatta l’usura oggettiva, veniva determinata aumentando il TEGM del 50%.

Da quella data in poi, invece, il valore soglia è identificato aumentando il TEGM del 25% ed incrementando ulteriormente questo valore di 4 punti percentuali. Il suddetto incremento complessivo rispetto al TEGM non può tuttavia superare il tetto pari a 8 punti percentuali.

Al di sopra di tale valore-soglia il finanziamento è sempre considerato usurario, mentre al di sotto di tale valore il rapporto può ritenersi lecito, almeno che per le concrete condizioni dell’operazione e lo stato di bisogno del ricevente non debba comunque ritenersi soggettivamente usurario.

Per le operazioni economiche più comuni (come il credito personale, il credito finalizzato, i leasing ed i mutui) il riferimento da prendere in considerazione è il noto indice “TAEG” (tasso annuo effettivo globale).

A concorrere a determinare il reale costo di un finanziamento ai fini della sua eventuale qualificazione come usurario, infatti, concorrono non soltanto il saggio di interesse preteso dal concedente, bensì anche svariate voci di costo come le spese di istruttoria, le spese di riscossione, le spese di chiusura della pratica, il costo di mediazione, il costo di assicurazione e ogni altra spesa contrattualmente prevista. Non vi concorrono invece le imposte e le tasse.

In linea di massima la comparazione del TAEG che caratterizza il proprio finanziamento col valore soglia trimestralmente definito dal Ministero dell’economia ci indica se il contratto è lecito oppure usuraio, con tutte le conseguenze penali e civili che vi conseguono.

Due ultime puntualizzazioni meritano di essere fatte.

In primo luogo, per accertare l’usurarietà di un contratto occorre considerare il valore soglia vigente al momento della sua stipulazione e non quelli successivi. Tuttavia, qualora l’usurarietà del rapporto contrattuale derivi da una modifica unilaterale della banca delle condizioni contrattuali, è a questo momento che occorre guardare.

In secondo luogo, va osservato come per verificare la liceità del contratto non sia sufficiente limitarsi a prendere in considerazione il TAEG risultante sulla documentazione contabile del finanziamento, ma si debbano invece verificare tutte le clausole contrattuali che, a determinate condizioni, potrebbero dare luogo ad interessi usurari.

L’usurarietà del contratto si rileva quindi in relazione al momento della stipulazione del contratto ed avendo astrattamente a riguardo a tutte le condizioni contrattuali previste.

 Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.

Violenza sulle donne e diritto penale

Negli ultimi anni si è preso pienamente consapevolezza di come, spesso e volentieri, i rapporti affettivi e coniugali si prestino a fungere da teatri di violenza, sopruso e denigrazione che, il più delle volte, vedono la donna quale vittima.

Proprio per far fronte a questa situazione il legislatore è intervenuto negli ultimi anni per garantire una risposta penale adeguata al fenomeno, così da consentire all’Autorità giudiziaria di reprimere questo fenomeno e di intervenire in modo tempestivo.

 

Le fattispecie di reato rilevanti

Quando si parla di violenza sulle donne non si vuol fare esclusivamente riferimento alla sua forma più grave, quella rappresentata dalla violenza fisica, ma altresì ad una serie variegata di comportamenti offensivi che toccano la libertà morale e sessuale della donna, oltreché la sua stessa serenità e dignità personale.
In tali contesti, molte sono le fattispecie di reato che possono ricorrere, tuttavia, due sono i delitti che meglio di altri riescono a fotografare queste situazioni nel loro complesso: il reato di atti persecutori o stalking e il reato di maltrattamenti in famiglia.

Il delitto previsto e punito dall’art.  612 bis c. p. – appunto il reato di atti persecutori – è caratterizzato dalla reiterazione di più condotte minacciose o moleste tali da ingenerare nella vittime uno stato di ansia o di timore per sé o per le persone care. Tali condotte possono essere poste in essere con qualunque mezzo e modalità, purché si presentino idonea a turbare o restringere la libertà del soggetto passivo.
Affinché tali atti assumano rilevanza penale alla luce della fattispecie di stalking, è inoltre necessario che producano una delle tre seguenti conseguenze nella vittima:

  1. un perdurante e grave stato di ansia e paura;
  2. un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva;
  3. l’alterazione delle proprie abitudini di vita.

Il reato di atti persecutori è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni, ma la pena è aumentata se tali fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla vittima.
Infine, merita di precisare come il delitto di stalking sia procedibile soltanto a querela di parte: ciò significa che il responsabile di tali condotte potrà essere perseguito e punito dalla giustizia soltanto allorquando la vittima, entro il termine perentorio di 6 mesi, sporga querela contro l’autore.

 

Diverso è invece il contesto nel quale può venire in considerazione il reato di maltrattamenti in famiglia. Il reato previsto e punito dall’art. 572 c. p. può consistere nella inflizione non solo di sofferenze fisiche, ma anche morali, tali da recare nella vittima umiliazioni, disprezzo o asservimento.  Si tratta di un illecito che, al contrario degli atti persecutori, può essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (genitore – coniuge – figlio).
Tuttavia, per famiglia deve qui intendersi non soltanto quella tradizionale, ma ma più in generale ogni unione di persone, tra le quali, per intime relazioni e consuetudine di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza, protezione e solidarietà.
I maltrattamenti ex art. 572 c. p. sono annoverabili anche quando la convivenza sia cessata e quindi anche dopo la separazione dei coniugi il cui regime giuridico lascia integro il dovere di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale, di solidarietà, nascenti dal rapporto coniugale.

Il reato di maltrattamenti è punito con la reclusione da 2 a 6 anni e, al contrario degli atti persecutori, è perseguibile d’ufficio. Basta pertanto che l’Autorità giudiziaria venga a conoscenza di tali fatti perché possa intervenire, perseguendone il responsabile.
Nonostante alcune differenze, la linea di demarcazione tra i due illeciti sopra descritti, qualora tali comportamenti avvengano in ambiente familiare, non è facilmente definibile ed è tutt’ora oggetto di discussione.

 

I rimedi cautelari

Molto rapidamente, meritano di essere illustrati tutti quegli istituti che consentono alla giustizia di intervenire tempestivamente in queste ipotesi e di mettere al sicuro la vittima dei maltrattamenti o degli atti persecutori durante la celebrazione del processo.

Innanzitutto, sia per i maltrattamenti in famiglia che per gli atti persecutori è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza di reato. La polizia giudiziaria che colga il responsabile di tali comportamenti nell’atto di commetterli non ha altra scelta che arrestare immediatamente quest’ultimo.
Anche a prescindere dalla flagranza di reato, una volta che tali fatti siano stati denunciati e durante le more del processo, la vittima di tali reati potrà contare su tutta una serie di misure cautelari volte a proteggerla durante il processo.
Nelle ipotesi più gravi, infatti, l’autore di tali reati potrà subire la custodia cautelare carceraria oppure gli arresti domiciliari, eventualmente con l’ulteriore sicurezza rappresentata dall’apposizione del c.d. braccialetto elettronico.
Anche per i casi meno gravi, tuttavia, il legislatore ha previsto delle misure cautelari ad hoc per questa tipologia di illeciti, meno invasive della libertà personale, ma comunque idonee a rassicurare la vittima.
L’Autorità giudiziaria può infatti ordinare al sospettato d’aver compiuto tali reati l’abbandono della casa familiare, senza possibilità di farvi rientro. Qualora il nucleo familiare dipenda dal reddito della persona allontanata, a quest’ultima può essere ingiunto il pagamento di un assegno mensile, così da consentire il sostentamento dei familiari e da spezzare quel legame di dipendenza economica che rende talvolta difficile per la vittima denunciare il familiare che la maltratta.
Inoltre, al responsabile può essere vietato l’avvicinamento alla vittima, al suo luogo di residenza, a quello di lavoro e, più in generale, ai luoghi solitamente frequentati da quest’ultima.
Infine, al responsabile di tali fatti può essere imposto di rimanere all’interno di in certo territorio comunale o provinciale oppure può essergli vietato di farvi ingresso.
In tutti questi casi, la violazione delle prescrizioni imposte dall’Autorità giudiziaria da parte del responsabile diventa il presupposto per l’aggravamento della misura cautelare che, come ultima ratio, può spingersi appunto fino alla custodia carceraria o domiciliare.
Infine il legislatore ha previsto in questi casi dei precisi obblighi informativi. La persona offesa deve essere informata qualora lo stato cautelare del responsabile muti e va interpellata quando la sua difesa chieda la revoca o la sostituzione della misura cautelare applicata.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.