Il processo penale: ecco in quali fasi si articola.

Il processo penale – ovverosia la procedura regolata dalla legge volta ad accertare la commissione dei reati e ad irrogare le sanzioni previste – si articola normalmente in tre fasi principali. Tale struttura può tuttavia subire delle deviazioni a seconda dei casi. Vediamo quindi quali sono queste fasi.

  1. La prima fase del processo penale è quella delle indagini preliminari, ove l’Autorità giudiziaria, per il mezzo della Polizia giudiziaria, svolge unilateralmente le investigazioni per verificare la fondatezza di una notizia di reato. Questa fase può concludersi in due modi: la Procura può convincersi dell’infondatezza della notizia di reato, e perciò chiederne l’archiviazione, oppure può chiedere che su quei fatti venga celebrato un processo a carico dei presunti responsabili.
  2. In quest’ultimo caso, si apre la seconda fase processuale, quella dell’udienza preliminare. L’udienza preliminare è quel momento in cui un Giudice terzo ed imparziale, sentite l’accusa e la difesa, decide se sia o meno opportuno celebrare un processo sui fatti rappresentati dall’accusa e contraddetti dalla difesa. A seconda della decisione del Giudice, all’esito dell’udienza preliminare il procedimento si concluderà con una sentenza di non luogo a procedere oppure vi sarà il rinvio a giudizio dell’imputato. Questa seconda fase del processo assume peraltro una notevole importanza in considerazione del fatto che rappresenta il momento ultimo nel quale la difesa è chiamata a fare una scelta strategia di vitale importanza: affrontare il processo vero e proprio oppure optare per un c.d. “rito alternativo” (patteggiamento, giudizio abbreviato), che limita o esclude del tutto le facoltà difensive, ma garantisce in cambio un sensibile sconto di pena.
  3. Se vi è il rinvio a giudizio e non c’è alcuna opzione per i riti alternativi, si apre la terza ed ultima fase del processo, quella dibattimentale. In questa fase, accusa e difesa portano le proprie prove avanti ad un Giudice terzo che, al termine del processo, emette una sentenza di assoluzione o di condanna rispetto alle accuse addebitate all’imputato. Il Giudice competente sarà in genere il Tribunale del luogo di commissione del reato. Soltanto alcuni reati più lievi sono infatti sottoposti alla giurisdizione del Giudice di Pace, mentre alcuni reati particolarmente gravi (generalmente “reati di sangue”) sono devoluti alla giurisdizione della Corte d’Assise.

La predetta scansione trifasica del procedimento penale può tuttavia subire alterazioni, per scelta della difesa o della pubblica accusa, allorquando si aderisca ad un c.d. rito alternativo. In questo caso uno o più delle fasi poc’anzi descritte possono mancare o subire alterazioni.

Rispetto alla decisione scaturita ad esito del primo grado di giudizio, entrambe le parti – l’accusa e la difesa – avranno poi la facoltà di chiederne una complessiva rivalutazione ad un diverso Giudice: appellando la sentenza avanti la Corte di Appello (oppure avanti il Tribunale o alla Corte d’assise d’appello qualora si tratti di sentenze pronunciate in primo grado rispettivamente dal Giudice di Pace o dalla Corte d’assise).
Anche la sentenza di quest’ultimo organo giurisdizionale, infine, potrà essere impugnata avanti ad un altro Giudice tramite il ricorso per Cassazione. Quest’ultimo, tuttavia, non permette più di chiedere la rivalutazione dei fatti e delle prove, bensì consente soltanto di verificare se nei precedenti due gradi di giudizio vi sia stata una corretta interpretazione ed applicazione della legge, processuale e sostanziale.

Caccia. Il furto venatorio: di cosa si tratta e quando ricorre.

Com’è ben noto a qualunque appassionato di caccia, l’attività venatoria è regolata dalla Legge n. 157 del 11 febbraio 1992.

In particolare, la suddetta normativa regola i tempi ed i modi nei limiti dei quali la caccia è consentita dallo Stato. Per esercitare l’attività venatoria, infatti, è necessario munirsi di un’apposita licenza amministrativa, che viene concessa dopo aver verificato determinati requisiti ed in cambio dell’annuale pagamento di una somma in favore dello Stato.

Ovviamente, la licenza di caccia non consente qualsiasi forma di attività venatoria, bensì pone dei precisi limiti temporali, spaziali nonché di quantità e specie cacciabili.

Ai sensi degli artt. 30 e 31 della L. 157/1992 sono quindi previsti tutta una serie di illeciti, penali ed amministrativi, che possono interessare i cacciatori che esercitano la caccia in maniera difforme a quanto previsto dalla legge.

Si fa in particolare riferimento alle ipotesi di caccia: in periodi dell’anno preclusi, di animali protetti,  in zone precluse, con modalità vietate o di un numero eccessivo di esemplari rispetto a quelli consentiti per ciascuna uscita venatoria.

Si tratta in generale di contravvenzioni, ovverosia di reati di scarsa gravità per i quali vengono comminate pene piuttosto lievi, tanto da determinare spesso l’estinzione del procedimento prima della loro stessa irrogazione a causa del sopraggiungere della prescrizione del reato.

Inoltre, ai sensi del III° comma dell’art. 30 della Legge 157/1992, in queste ipotesi è espressamente esclusa la possibilità di contestare il reato di furto.

Il furto venatorio: quando ricorre e quali sono le conseguenze?

Nettamente differente è la posizione di colui che svolge attività venatoria di frodo, ovverosia senza avere la necessaria licenza di caccia: caso che può ricorrere quando non si sia mai conseguito la licenza, ma anche quando quest’ultima non sia stata rinnovata oppure sia stata revocata dall’Autorità.

A questo proposito, va infatti rammentato come, ai sensi del primo articolo della Legge n. 157/1992, “la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato”.

Ciò significa che chiunque se ne appropri illegittimamente, ovverosia senza essere mai stato autorizzato in questo senso dal legittimo proprietario, cioè dallo Stato, commette il grave reato di furto aggravato di cui agli artt. 624 e 625 C.p. In particolare, per tale reato la legge commina una pena della reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 103,00 a 1.032,00 euro.

Inoltre, a seconda delle modalità più o meno cruente utilizzate per cacciare le prede, potranno ricorrere altresì i delitti di cui agli artt. 544-bis e 544-ter C.p., ovverosia di uccisione di animali o di maltrattamento di animali.

Concludendo, pertanto, può affermarsi quanto segue: mentre chi esercita l’attività venatoria irregolarmente, ma pur sempre essendo titolare di una regolare licenza, potrà commettere soltanto uno o più dei blandi illeciti contravvenzionali previsti dalla Legge 157/1992; chi invece caccia pur non possedendo una licenza rischierà di vedersi contestato il ben più grave delitto di furto aggravato (v. Cass. Pen., sez. V, n. 12680 del 25 marzo 2015).

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.