La responsabilità penale del gestore della pista da sci

Gli sport sulla neve sono notoriamente una pratica divertente, ma altresì piuttosto rischiosa. L’alta velocità raggiunta dagli sciatori unita all’affollamento delle piste, peraltro spesso frequentate da utenti con abilità sciistiche assai eterogenee, costituiscono una miscela estremamente pericolosa, sia per gli sportivi che per i “tristi della domenica”. Col presente contributo si intende approfondire il tema della responsabilità penale del gestore della pista da sci.

Vediamo dunque in quali casi gli infortuni sugli scii possano comportare forme di responsabilità, civile e penale, a carico degli altri sciatori e del gestore della pista da sci.

Lo sciatore (ma lo stesso vale per gli altri sport) non è libero di fare ciò che vuole sulle piste da scii, ma è tenuto a rispettare tutta una serie di regole cautelari volte a scongiurare scontri con gli altri utenti. In particolare, è necessario che chi frequenta le piste tenga sempre un comportamento tale da non intralciare le altrui traiettorie, anche in coerenza a quelle che sono le proprie reali capacità di manovra sugli sci.

Quando l’inosservanza di queste regole di diligenza e prudenza causa un infortunio ad altri utenti della pista, si determina in capo allo sciatore un’ipotesi di responsabilità sul piano civile, con la conseguente necessità di risarcire il danno prodotto.

Inoltre, si avrà altresì una responsabilità penale, almeno nei limiti in cui l’infortunato decida di proporre querela entro il termine decadenziale di tre mesi dal fatto.

Ciò che tuttavia è forse meno conosciuto è che, in molte ipotesi, può aversi una responsabilità, sia sul piano civile-risarcitorio che su quello penale, anche del gestore della pista da sci.

In considerazione del contratto (non scritto, ma comunque implicito) concluso tra lo sciatore ed il gestore della pista al momento del pagamento del biglietto, infatti, sorge in capo a quest’ultimo una vera e proprie posizione di garanzia in favore del primo, ovverosia l’obbligo giuridicamente vincolante di porre in essere tutte le necessarie cautele volte a prevenire l’infortunio dello sciatore.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito i contorni di quest’obbligo del gestore della pista (Cass. Pen. Sez. IV, 9 novembre 2015, n. 44796).

Nel caso affrontato dalla Corte, una sciatrice intenta nella discesa era rimasta infortunata in conseguenza dell’impatto con una minore, che aveva invaso perpendicolarmente la pista facendovi repentinamente ingresso lateralmente, dopo una breve escursione fuori pista.

Il Giudice di Pace di Bressanone aveva quindi assolto i gestori della pista dal reato di lesioni colpose gravi, osservando come la normativa provinciale non obbligasse i gestori a recintare la pista al fine di evitarne invasioni laterali.

La Cassazione annullava tuttavia la sentenza del Giudice di Pace, osservando invece come “sul gestore dell’impianto e delle piste servite gravi l’obbligo della manutenzione in sicurezza delle piste medesime che gli deriva altresì [oltre che dagli obblighi di legge] dal contratto concluso con lo sciatore che utilizza l’impianto”. Inoltre, secondo la Corte di legittimità, “il pericolo da prevenire, oggetto della posizione di garanzia [incombente sul gestore degli impianti sciistici] non è soltanto quello interno alla pista, ma coinvolge altresì i pericoli atipici, cioè quelli che lo sciatore non si attende di trovare, diversi quindi da quelli connaturati a quel quid di pericolosità insito nell’attività”.

Infine, la Cassazione ha altresì precisato come l’obbligo di protezione gravante sul gestore delle piste si estenda anche alla prevenzione “di quei pericoli esterni alle piste, ma cui si poteva andare incontro anche in caso di comportamento imprudente di terzi”.

I gestori delle piste da scii hanno quindi l’obbligo, rilevante anche sul piano penale, di mantenere le piste in sicurezza, adottando tutte le misure necessarie (come quella di recintare la pista medesima) al fine di prevenire rischi a carico degli sciatori, anche se causati da condotte negligenti ed imprudenti di altri utenti. In queste ipotesi, non soltanto lo sciatore imprudente, bensì anche il gestore della pista può essere chiamato a rispondere del delitto di lesioni colpose.

Quest’ultimo, tuttavia, è un reato procedibile a querela di parte, cioè un’ipotesi di reato che può essere perseguita dall’Autorità giudiziaria soltanto nei limiti in cui la persona offesa proponga querela contro i responsabili entro il termine decadenziale di 3 mesi dall’incidente.

La proposizione della querela, peraltro, rimane sempre remissibile (cioè può essere ritirata, interrompendo così il procedimento penale), è può pertanto fungere da utile “merce di scambio” per ottenere un risarcimento tempestivo e soddisfacente in favore dell’infortunato.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.

La coltivazione di marijuana per uso personale: due recenti novità.

Capita frequentemente che il consumatore di cannabis cerchi di evitare di rifornirsi sul mercato illegale degli stupefacenti (controllato dalla criminalità organizzata) mediante la coltivazione di marijuana in ambiente domestico.

Tutto ciò crea non pochi problemi, dato che la condotta di “coltivazione” di sostanze stupefacenti è prevista come reato  – ed è peraltro punita piuttosto severamente – dall’art. 73 del D.P.R. 309/1990 e, al contempo, non è invece contemplata dall’art. 75 del medesimo apparato normativo nel novero di quelle condotte che, nei limiti in cui siano finalizzate al consumo personale, risultano penalmente irrilevanti e sanzionate soltanto sul piano amministrativo.

Ciò ha indotto la giurisprudenza di legittimità, dopo alcune aperture iniziali, ad assumere un atteggiamento particolarmente rigoroso, ritenendo che ogni forma di coltivazione di piante in grado di fornire sostanze idonee a produrre un effetto stupefacente sull’uomo dovesse considerarsi reato, a nulla rilevando il fatto che si trattasse di condotte strumentali all’uso personale, di per sé penalmente lecito. Il delitto previsto dall’art. 73 della normativa sugli stupefacenti assumerebbe infatti i contorni del reato di pericolo astratto e, in tal modo, punirebbe  sempre la coltivazione delle sostanze stupefacenti per il rischio che queste ultime possano diffondersi ulteriormente.

Tale posizione è stata tuttavia fortemente criticata, in quanto ritenuta irragionevole. Posto che il consumo di stupefacenti non costituisce reato, che senso avrebbe ritenere lecito l’acquisto della sostanza dal mercato illegale – che alimento in tal modo la criminalità organizzata – e non anchela coltivazione “in proprio”, che invece non alimenta questo mercato?

La tematica rimane tutt’ora particolarmente complessa e difficilmente potrà essere superata a prescindere da un intervento legislativo che restituisca coerenza alla disciplina. Merita tuttavia di mettere in luce due recentissime novità che hanno interessato la tematica in esame.

Innanzitutto, il Decreto legislativo n. 8/2016, che ha recentemente depenalizzato tutta una serie di reati minori, ha coinvolto anche la disciplina sugli stupefacenti.

Da questo punto di vista, tuttavia, l’intervento è stato assolutamente marginale e prevedibilmente dallo scarsissimo valore applicativo. La coltivazione di stupefacenti, infatti, del tutto a prescindere dalla finalità col quale viene realizzata, rimane reato.

Il legislatore si è piuttosto limitato a prevedere come mero illecito amministrativo, anziché penale, la condotta di chi, nonostante sia autorizzato dalle autorità alla coltivazione della cannabis per la produzione di farmaci, trasgredisca ad alcune delle prescrizioni indicate dall’atto autorizzativo.

Sul tema, appare invece più significativo riportare quanto stabilito dalla recente sentenza n. 5254, pronunciata il 9 febbraio 2016 dalla VI° sezione penale della Corte di Cassazione, la quale rappresenta un’interessante apertura rispetto al passato.

La vicenda esaminata dalla Corte prende il via dal ricorso proposto da una coppia condannata per Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti”  di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/1990, per aver coltivato nella propria abitazione due piante di canapa indiana e per aver detenuto in un essiccatore 20 foglie della medesima pianta.

La Corte d’appello aveva ritenuto irrilevante la destinazione della sostanza ad uso personale o meno.
Secondo la difesa, invece, la condotta non avrebbe avuto alcuna attitudine alla lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminante poiché, tra l’altro, nel caso concreto, era indubbia la destinazione al mero uso personale.

Ebbene, in quest’occasione la Corte di legittimità ha ritenuto superabile il rigido orientamento precedentemente espresso dalle Sezioni Unite secondo cui “la coltivazione di piante destinate alla produzione di stupefacente è una condotta sempre punibile”.

Secondo la recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, infatti, nel caso di specie doveva trovare applicazione l’insegnamento impartito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 139 del 2014.
In quell’occasione, infatti, il Giudice delle Leggi aveva ribadito come”resti precipuo dovere del giudice di merito di apprezzare – alla stregua del generale canone interpretativo offerto dal principio di necessaria offensività della condotta concreta – se essa, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, sia, in concreto, palesemente priva di qualsiasi idoneità lesiva dei beni giuridici tutelati“.

Secondo la Cassazione, nel caso in questione ricorreva appunto l’assenza di offensività della condotta, essendo quest’ultima talmente lieve da determinare un irrilevante aumento di disponibilità di droga e da non rendere prospettatile alcuna ulteriore diffusione della sostanza.

La Cassazione perveniva pertanto alla seguente conclusione: “l’avere coltivato due piantine, senza alcuna ragione di ritenere che i ricorrenti avessero altre piante non individuate e, quindi, essendo certo che quanto individuato esauriva la loro disponibilità senza alcuna prospettiva di utile distribuzione in favore di terzi consumatori, non è in concreto una condotta offensiva per le ragioni anzidette“.
In questo modo la Corte non ha in alcun modo ritenuto la liceità della coltivazione di marijuana in considerazione della sua strumentalità al consumo personale, bensì ha riconosciuto come il reato di coltivazione non ricorra tutte le volte in cui il quantitativo di droga prodotto sia tanto esiguo (nel caso di specie poche piantine di marijuana) da non determinare alcun rischio di diffusione della sostanza.

Si tratta di una giurisprudenza ancora non consolidata, ma che ha il merito di sforzarsi di ricondurre il sistema a coerenza, nonché di scongiurare l’irrogazione di trattamenti sanzionatori talvolta draconiani in relazione a condotte sostanzialmente innocue.

Avv. Ronny Spagnolo, Ph.D.