Approvato l’“omicidio stradale”: ecco cosa cambia ed alcune osservazioni critiche sul provvedimento.

Approvato l’“omicidio stradale”: ecco cosa cambia ed alcune osservazioni critiche sul provvedimento.

Lo scorso due marzo il Senato ha approvato, in quinta ed ultima lettura, il disegno di legge volto ad introdurre nell’ordinamento il reato rubricato come “omicidio stradale”. Dal 25 marzo 2015 il d.d.l. è a tutti gli effetti legge dello Stato, applicabile – solo per il futuro e senza alcun effetto retroattivo – ai sinistri stradali che provochino morti o feriti.

Cerchiamo allora di capire a grandi linee che cosa cambia con la nuova disciplina, non prima d’aver chiarito quanto segue.

Un’ipotesi aggravata di omicidio colposo “stradale” non è affatto nuova all’ordinamento, essendo già prevista dalla normativa attuale. L’art. 589 C.p. ancora in vigore per qualche giorno, infatti, punisce l’omicidio colposo “comune” con una pena che va dai sei mesi ai cinque anni di reclusione. La stessa norma prevede tuttavia un’ipotesi aggravata di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, punendolo con una pena ricompresa tra i due ed i sette anni di reclusione. Infine, la stessa normativa contempla un’ipotesi ulteriormente aggravata – punita con la reclusione da tre a dieci anni – qualora l’omicidio colposo “stradale” venga commesso da persona alterata per l’effetto di sostanze stupefacenti oppure in stato di ebbrezza, con un livello di alcol nel sangue superiore a 1,5 g/l. Vediamo allora quali sono le principali novità introdotte dalla nuova disciplina.

  1. Innanzitutto, il c.d. “omicidio stradale”, prima contemplato come forma aggravata di omicidio colposo comune, diventa ora un reato autonomo, definito dall’art. 589-bisp. Da questo punto di vista, tuttavia, la riforma avrà un effetto poco più che simbolico, dato che entrambi gli effetti che si perseguono in genere nella trasformazione di una circostanza aggravante in un reato autonomo – ovverosia l’allungamento dei termini di prescrizione e l’impossibilità di abbassare la pena concretamente irrogata dal giudice mediante il bilanciamento dell’aggravante con le concorrenti circostanze attenuanti – erano già ampiamente garantiti dalla vecchia disciplina;
  2. Il nuovo delitto di “omicidio stradale” di cui all’art. 589-bisp., ovverosia l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme che regolano la circolazione stradale, sarà punito con una pena – dai due ai sette anni di reclusione – pari a quella già precedentemente prevista dalla vecchia disciplina. Da questo punto di vista, quindi, niente cambia;
  3. Differentemente dalla normativa attuale, invece, verrà comminata una pena davvero draconiana – dagli otto ai dodici anni di reclusione – per le ipotesi di “omicidio stradale” commesse da persone che si siano poste alla guida in stato di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di stupefacenti oppure in stato di ebbrezza, sempreché venga accertato un livello di alcol nel sangue superiore a 1,5 g/l. Attenzione però che per i conducenti “professionali” o di mezzi pesanti la nuova ipotesi aggravata di reato scatterà già a partire dalla soglia dello 0,8 g/l;
  4. Verranno infine puniti con la reclusione da cinque a dieci anni coloro che, con violazione delle norme sulla circolazione stradale, provocheranno per colpa la morte di una persona in una di queste specifiche ipotesi:
    1. Guidando in stato di ebbrezza con un livello d’alcol nel sangue pari o superiore a 0,8 g/l, ma inferiore a 1,5 g/l; al di sopra scatterà invece l’ipotesi “super aggravata” di cui al punto 3);
    2. Procedendo in centro abitato ad una velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 km/h, oppure in strade extra-urbane ad una velocità di almeno 50 km/h superiore a quella consentita;
    3. Attraversando un incrocio col semaforo rosso oppure procedendo contromano;
    4. Invertendo il senso di marcia in prossimità di incroci, dossi o curve, oppure sorpassando altri automezzi in corrispondenza di attraversamenti pedonali o con linea continua;
  5. All’art. 590-bisp. viene introdotta una nuova ipotesi autonoma di reato di “lesioni personali stradali gravi o gravissime”, anche in questo caso con la previsione di limiti di pena differenziati a seconda delle diverse ipotesi parallelamente previste anche per l’omicidio stradale;
  6. Viene infine previsto il c.d. “ergastolo della patente”, ovverosia la revoca della patente e l’impossibilità di conseguirne una nuova per un periodo che va dai dieci ai trent’anni nei casi di omicidio stradale e dai cinque ai dodici anni nelle ipotesi di lesioni personali stradali.

Complessivamente, è quindi plausibile che la riforma che si accinge ad entrare in vigore avrà degli effetti piuttosto sensibili, nel senso di determinare lunghi periodi di carcerazione per coloro che provocheranno sinistri stradali con morti o feriti. D’altronde, si tratta di un provvedimento lungamente promosso dalle associazioni dei parenti delle vittime della strada che, evidentemente, voleva dare all’opinione pubblica un segnale forte e tangibile di impegno nel contrasto di quelle condotto che, pur non essendo volontarie, provocano danni tanto gravi.

Ciò premesso, tuttavia, non possono sottacersi alcune forti perplessità destate sotto diversi aspetti dalla riforma.

 

I numeri parlano. Innanzitutto, bisogna chiedersi se una normativa tanto rigorosa fosse davvero necessaria. L’utilizzo dello strumento penale, infatti, comporta sempre un grave sacrificio della libertà personale del cittadino al cospetto dello Stato che, in linea di massima, può dirsi accettabile soltanto quando sia volto a contrastare comportamenti gravi e sensibilmente dannosi per la società, rispetto ai quali non sembrino prospettabili altri efficaci mezzi di contrasto. La privazione della libertà di una persona, in un ordinamento autenticamente liberale, deve rappresentare l’extrema ratio. Per fare tali valutazioni, inoltre, sarebbe auspicabile che il Parlamento si comportasse in maniera razionale, guardando ai numeri del fenomeno, piuttosto che farsi trasportare dalle emozioni del momento. Quali sono allora “i numeri” del fenomeno in questione? Esiste veramente una emergenza da contrastare?

Ebbene, basta consultare il sito dell’ISTAT[1] per evincere quanto segue. I morti in Italia a causa di incidenti stradali erano stati 7.096 nel 2001, per poi scendere costantemente, anno dopo anno, al livello di 3.381 nel 2014. Limitando l’analisi al Veneto e alla provincia di Vicenza, scopriamo che i morti come conseguenza di incidenti stradali erano stati rispettivamente 963 e 99 nel 2011, per calare drasticamente al numero di 325 e 50 nel 2014. In quindici anni si sono più che dimezzati e il trend si mostra tuttora in continua diminuzione. Se invece prendiamo in considerazione i soli pedoni morti a causa di sinistri stradali, scopriamo che nel 2001 in Italia erano stati 932, mentre nel 2014 si erano quasi dimezzati a quota 548. Quanto al Veneto e alla provincia di Vicenza, i pedoni deceduti in incidenti stradali erano stati rispettivamente 48 e 7 nel 2001, per diventare 38 e 4 nel 2014. Passando infine ai feriti in incidenti stradali, in Italia furono 373.286 nel 2001 per passare – diminuendo costantemente – al numero di 251.147 nel 2014. Limitando l’analisi al nostro territorio regionale e provinciale, i feriti sulla strada erano stati rispettivamente 30.535 e 4.687 nel 2001 per calare costantemente fino ai 19.512 e 3.074 nel 2014. Anche in questo caso la decrescita è davvero impressionante, al contrario di quel che vorrebbe invece suggerire una certa campagna di stampa piuttosto incline a cavalcare le emozioni della tragedia di turno anziché ad analizzare razionalmente i problemi.

Se questi sono “i numeri” del fenomeno sembra davvero difficile sostenere che in Italia vi sia una emergenza da contrastare e, pertanto, sembra più che lecito chiedersi se un provvedimento come quello poc’anzi varato, che chiederà a tanti cittadini un sacrificio così pesante in termini di perdita della libertà personale, fosse davvero giustificabile.

 

L’effetto boomerang. In secondo luogo, vi è chi ha già fatto notare come un innalzamento tanto marcato delle pene potrebbe determinare un effetto contrario a quello perseguito. Se infatti il responsabile di un sinistro stradale si trova a dover a fare i conti col rischio di passare i prossimi anni in galera, potrebbe essere maggiormente indotto alla fuga, a tutto danno della vittima che necessiterebbe invece di immediato soccorso. E’ infatti vero che la normativa prevede un’aggravante per chi si dia alla fuga dopo l’incidente, ma nella “sinistra contabilità della pena” la possibilità di farla franca, evitando un decennio di carcerazione, potrebbe fungere da stimolo psicologico assai più robusto rispetto al deterrente costituito dalla mera eventualità di incorrere nell’aggravante qualora venisse identificato.

 

Giustizia è proporzione. Proseguendo con l’analisi, merita di essere considerata l’obiezione forse più pregnante rivolta contro la nuova disciplina: la sproporzione delle pene previste rispetto alla reale colpevolezza dell’autore del reato. La nuova disciplina spinge i limiti di pena di questa particolare ipotesi di omicidio colposo – e, parallelamente, un ragionamento analogo potrebbe farsi per le lesioni colpose – a livelli sovrapponibili con quelli propri dell’omicidio preterintenzionale e non molto distanti dai livelli di pena stabiliti per l’omicidio volontario.

Punire è ovviamente un atto di giustizia, necessario per conservare un certo ordine nella società e garantire l’integrità e le libertà di ognuno di noi. Quando tuttavia si perde di vista la proporzione tra l’entità della pena e la reale colpevolezza del responsabile, punire rischia di degenerare in un atto di violenza. In questo modo la pena e la vendetta finiscono per confondersi. Se questo è vero, vien da chiedersi se sia legittimo trattare in modo tanto simile fenomeni invece così diversi tra loro: come l’omicidio voluto di una persona e quello che, per quanto grave sia la colpa che l’ha cagionato, non era comunque perseguito dal responsabile.

D’altronde, nei reati colposi il verificarsi dell’evento illecito che determina l’applicazione della pena è spesso legato a fattori del tutto casuali. Si pensi, solo a titolo di esempio, al sorpasso azzardato eseguito in linea continua. Ebbene, in genere si tratta di una condotta – peraltro tutt’altro che infrequente – punibile con una semplice sanzione amministrativa ammontante a poche centinaia di euro. Qualora tuttavia, per un mero caso quale il sopraggiungere di un altro veicolo nel momento sbagliato, ciò provochi la morte o il ferimento di qualcuno, con la nuova disciplina il responsabile rischierà una pena che va da cinque a dieci anni di reclusione. In entrambi i casi l’autore del fatto ha tenuto lo stesso identico comportamento colposo, in entrambi i casi quest’ultimo non voleva assolutamente causare alcun sinistro. Dovremmo allora ammettere che un trattamento sanzionatorio tanto radicalmente differenziato nei due casi non trova minimamente giustificazione nella colpevolezza dell’autore, che è assolutamente sovrapponibile nelle due ipotesi. E si badi bene, che per lo stato di ebbrezza il ragionamento non è molto dissimile. Rimettere l’applicazione di una pena tanto grave al superamento di una soglia di concentrazione alcolica nel sangue, significa farla dipendere da fattori ampiamente accidentali rispetto ai quali la capacità di controllo del responsabile è marginale. A fare la differenza nella vita di una persona sarà in larga parte il caso. Ma quale Giustizia fa dipendere il proprio responso dal caso?

Chiudendo questa riflessione, sembra quindi lecito chiedersi se pene tanto elevate in relazione a comportamenti colposi, peraltro piuttosto comuni, siano davvero giustificabili o, piuttosto, non siano altro che una forma di fuga dalle proprie responsabilità da parte dello Stato che, piuttosto che investire sulla prevenzione, si limita ad assecondare il comprensibile desiderio di vendetta dei parenti delle vittime, accontentandosi di punire “esemplarmente” qualche malcapitato. E’ davvero questa la via giusta per garantire la sicurezza sulle strade?

 

Ipocrisia di Stato? Ancora, non può sottacersi come la disciplina in commento sembri trovare origine in un atteggiamento piuttosto ipocrita dello Stato. Con questa riforma, infatti, il legislatore dichiara guerra al fenomeno della guida in stato di ebbrezza, certamente causa di tanti sinistri nel nostro paese, imponendo sanzioni davvero draconiane. Nel contempo, tuttavia, il legislatore non sembra essere conseguente con le intenzioni dichiarate e non intraprende con coraggio quella strada – peraltro già percorsa da tempo dai paesi dell’Europa settentrionale per contrastare il medesimo fenomeno – che segnerebbe davvero una svolta in quest’ambito: vietare la guida in stato di ebbrezza del tutto a prescindere dal livello di alcol nel sangue, senza più la previsione di soglie.

La scienza ci insegna invero come già bassi livelli di alcol nel sangue siano più che sufficienti per compromettere la capacità di reazione del conducente e, soprattutto, per inibirne la sensazione di pericolo. Se allora la volontà del legislatore era veramente quella di dichiarare guerra all’alcol sulle strade, c’è da chiedersi per quel motivo abbia trascurato questo aspetto. Ad essere maliziosi, verrebbe da pensare che il nostro paese, in cui prolifica una fiorente industria dell’alcol, non possa permettersi di andare fino in fondo in questa battaglia e preferisca perciò limitarsi a sacrificare sull’altare dell’opinione pubblica qualche capro espiatorio, rinunciando così a risolvere il problema.

Un altro sintomo che, sempre ad essere maliziosi, potrebbe indurre a ritenere che il legislatore abbia approvato un provvedimento normativo più per attrarre il consenso dell’elettorato che per risolvere un reale problema, si annida nelle scelte dei comportamenti da contrastare.

Non pare infatti azzardato affermare che, oggi come oggi, uno dei comportamenti al contempo più diffusi e più pericolosi sulla strada sia quello rappresentato dalle distrazioni derivanti dall’uso del telefono cellulare durante la guida. Basta guardarsi attorno per verificare come l’uso disinvolto del telefono alla guida (per telefonare, leggere e scrivere messaggi o magari spudoratamente per consultare social network o giornali on-line) sia estremamente diffuso. Quanto alla pericolosità dello stesso comportamento non occorre spendere molte parole, essendo di tutta evidenza. Ogni volta che abbassiamo lo sguardo sullo schermo del nostro onnipresente smartphone, lasciamo che la nostra macchina proceda per decine e decine di metri senza alcun controllo.

Orbene, nonostante ciò il legislatore non ha previsto questo comportamento tra quelli che integrano l’ipotesi aggravata di omicidio stradale. Anche in questo caso, ad essere maliziosi si potrebbe insinuare il sospetto che, un legislatore eminentemente preoccupato di catturare il consenso dell’opinione pubblica, abbia intenzionalmente evitato di punire eccessivamente un comportamento tanto diffuso. Un provvedimento del genere avrebbe probabilmente intimorito troppo potenziali elettori, rendendo così meno spendibile la riforma in termini di “marketing elettorale”.

 

Contraddizioni crescono. Proseguendo con l’analisi, sembra lecito chiedersi quale significato possa avere “sbattere in galera” qualche migliaio di cittadini responsabili di sinistri stradali colposi, ma comunque involontari, quando quasi tutti gli anni il nostro legislatore è costretto ad approvare provvedimenti clemenziali volti ad alleggerire la sempre eccessiva popolazione carceraria. Ha davvero senso spalancare le porte delle carceri per coloro che si sono resi responsabili della commissione di reati dolosi per poi metterci dentro cittadini che hanno sbagliato un sorpasso? Data l’impossibilità di recludere tutti in carcere, forse sarebbe stato preferibile escogitare sanzioni alternative per i responsabili di illeciti colposi, riservando la carcerazione soltanto a coloro che si siano macchiati di gravi reati volontari.

D’altronde, anche a prescindere dalla impossibilità di sostenere una popolazione carceraria eccessiva, militano a sfavore di una tale scelta di politica criminale anche ragioni di opportunità. L’idea, purtroppo tanto diffusa nell’opinione pubblica, per cui il carcere sia la panacea di tutti i mali è contraddetta dai numeri. La detenzione, il più delle volte, non soltanto non risolve alcun problema, ma ne crea a sua volta di nuovi. Il carcere, soprattutto in Italia, anziché riabilitare chi ha sbagliato mettendolo in condizione di tornare a vivere onestamente in società, spesso e volentieri non fa altro che formare nuova delinquenza. C’è perciò da chiedersi quali vantaggi il paese immagini di ottenere rinchiudendo per anni in istituti penitenziari, ovviamente a spese del contribuente, migliaia di persone che hanno colposamente provocato sinistri stradali. Non erano forse percorribili altre vie?

Le strade saranno veramente più sicure d’oggi in poi? C’è da dubitarne.

Avv. Ronny Spagnolo

[1] http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_MORTIFERITISTR1.